Il generale ‘Abd al-Fattah al-Sisi (classe 1954) è senza dubbio la massima autorità e decision maker in Egitto, indipendentemente dalla sua scontata elezione a presidente della repubblica di fine maggio. Questa posizione gli deriva ovviamente dal ruolo decisivo assunto, in quanto capo dell’esercito, nella estromissione del presidente eletto Mohamed Morsi il 3 luglio 2013, in seguito alle proteste popolari di massa del 30 giugno, che chiedevano all’esponente della Fratellanza musulmana, eletto solo un anno prima, di dimettersi anticipatamente. Eppure, fino al 12 agosto 2012, il “generalissimo” era ben poco noto non solo internazionalmente ma anche in Egitto, e completamente sconosciuto al grande pubblico che oggi sembra adorarlo. Per quella che adesso sembra una grottesca circostanza, era stato proprio il neoeletto presidente Morsi, con una manovra i cui particolari sono ancora tutti da chiarire, a elevare al-Sisi, il più giovane membro del cosiddetto Scaf (Consiglio supremo delle forze armate), al ruolo di ministro della Difesa e capo supremo dell’esercito. Difatti, in una torrida giornata di Ramadan, Morsi aveva annunciato la rimozione del vecchio Tantawi, che aveva ricoperto il ruolo di capo dello stato de facto dalla caduta di Mubarak (febbraio 2011) fino alla prima “elezione democratica” di un presidente della repubblica egiziano (giugno 2012). Molti osservatori, inclusi i mass media egiziani, pensarono che al-Sisi, apparentemente slegato dall’élite militare mubarakiana, formatasi ai tempi di Nasser, dovesse essere l’uomo dei Fratelli musulmani all’interno dell’esercito, vedendo nella sua improvvisa promozione un tentativo della Fratellanza di penetrare la più illustre e solida istituzione in Egitto, ancorché col prestigio in netta discesa a causa dell’esperienza abbastanza fallimentare del governo dello Scaf tra il 2011 e il 2012. In effetti, se non si poteva esser certi che il neoministro della Difesa fosse un simpatizzante della Fratellanza, la sua mancanza di esperienza “politica” e la sua giovane età sembravano sicuramente un tentativo di ridurre l’influenza delle forze armate nella vita politica del “nuovo democratico Egitto”.
Eppure, proprio gli errori a ripetizione della dirigenza dei Fratelli musulmani, insieme al prestigio quasi “magico” di cui l’istituzione militare gode in Egitto dalla Rivoluzione del ’52 se non da quella di Ahmad ‘Orabi (1881-82), avrebbero lanciato la stella di al-Sisi nel firmamento della politica egiziana, araba e internazionale. La disastrosa gestione dello Scaf aveva di fatto ridotto la popolarità e il prestigio delle forze amate in Egitto ai minimi storici dai tempi della sconfitta con Israele del 1967. Tuttavia, la a dir poco movimentata situazione politica nel paese dopo la “rivoluzione di Gennaio 2011” e le mosse imprudenti del nuovo presidente islamista avrebbero non solo causato la fine del “matrimonio d’interessi” tra i fratelli musulmani e l’esercito, ma riproiettato quest’ultimo, e il suo nuovo leader, sul proscenio della politica egiziana, dopo una breve pausa. Probabilmente l’inizio della fine di questo comunque precario rapporto è da ricercarsi nella dichiarazione costituzionale di Morsi del novembre 2012 e soprattutto nella reazione popolare e negli scontri, per lo più tra civili, che arrivarono per la prima volta a lambire, e non colpire, i palazzi del potere, inclusi quelli ove risiede l’élite militare. Quando l’invito di al-Sisi alle parti in conflitto ad accettare la sua mediazione in quanto a capo di un organo ufficialmente super partes fu poco cortesemente rifiutato dalla presidenza nel dicembre 2012, sembra il momento plausibile in cui il generale avrebbe iniziato a pensare di "sciogliere la società" con la Fratellanza.
È un dato di fatto che coll’aggravarsi della polarizzazione e della crisi politica nella prima parte del 2013, al-Sisi aumentò la sua presenza pubblica, rimarcando costantemente l’indipendenza dell’esercito, in modo da sganciare progressivamente i militari dall’amministrazione Morsi.
Nonostante le numerose teorie cospirative circolanti – non tutte campate in aria peraltro –, quando alcuni giovani lanciarono la campagna Tamarrud nella primavera del 2012, chiedendo agli egiziani di “festeggiare” il primo anno di presidenza Morsi chiedendone le dimissioni, pochi potevano pensare che un possibile effetto collaterale dell’eventuale caduta del presidente eletto sarebbe potuto essere l’ascesa di al-Sisi. Mentre non ci sono prove che dimostrino la presenza del generale dietro i fondatori di Tamarrud, è invece logico ed evidente che egli, come tutto il variegato blocco degli oppositori dei fratelli musulmani, abbia trovato in questa campagna popolare il migliore veicolo per decretare la fine del rapporto privilegiato con la principale forza islamista egiziana.
La decisione drammatica, e mai spiegata chiaramente nelle dichiarazioni successive, di imporre al presidente Morsi un ultimatum di due giorni il primo luglio al fine di evitare che il paese precipitasse nel caos e nella violenza politica, segna il vero inizio dell’ascesa della stella di al-Sisi, il quale compariva, sia pur attorniato da altri leader politici e religiosi, in televisione ad annunciare al paese l’avvenuta deposizione di Morsi per mano delle forze armate. I mesi successivi al “colpo di stato rivoluzionario” hanno visto una veloce e incontrastata ascesa del “mito di al-Sisi”, al punto che oggi si può parlare, senza tema d’errore, di una vera a propria Sisi-mania nel paese. Oltre ad avvantaggiarsi del paragone con lo scialbo Tantawi, ci sono altri elementi che aiutano a comprendere questo processo di “costruzione del mito”. Probabilmente, il fattore decisivo resta comunque la “Ikhwanofobia” che accomuna settori anche ideologicamente lontani della società egiziana, come parte del mondo marxista e le molte famiglie legate all’élite militare. Accanto a questa, ma in realtà a essa connessa, è stato ed è tuttora decisivo il ruolo giocato dalla stragrande maggioranza dei media egiziani, che hanno di fatto creato quasi dal nulla un vero e proprio mito di al-Sisi, «invincibile salvatore dell’Egitto dalla minaccia terroristica dei Fratelli musulmani». Tuttavia la Sisi-mania, se da un lato fa pensare ai tempi di Nasser e al suo sostegno popolare, d’altra parte contiene numerosi pericoli che sembrano essere stati sottovalutati dai corifei dei mass-media oramai mutatisi in mezzi di propaganda e disinformazione. Non solo, infatti, la rappresentazione di un paese unito dietro al-Sisi, come potrebbe apparire dai risultati delle elezioni, è fuorviante nel momento in cui i campus universitari in tutto il paese sono diventati veri e propri templi della “Sisi-fobia”, che è il prodotto della polarizzazione perseguita dal “feldmaresciallo”. Inoltre, oltre a rispolverare il vecchio culto del leader, anche attraverso la poco prudente comparazione con Nasser, la propaganda a favore di al-Sisi ha già generato nella popolazione aspettative irrealistiche su “superpoteri” che permetterebbero al generale di rimettere in sesto la disastrata economia egiziana e ristabilire condizioni minime di sicurezza. Resta da vedere non solo se al-Sisi sarà all’altezza di queste sfide, ma anche se la sua popolarità resisterà alle inevitabili crisi.