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Commentary

Il vertice Nato e la pericolosa liturgia dell’allargamento

Andrea Carati
05 September 2014

Negli ultimi vent’anni la Nato è vissuta e sopravvissuta grazie alle crisi internazionali. Non potrebbe essere altrimenti, non esistono alleanze militari nella storia che vogliano essere credibili ed efficaci ma che siano prive di una minaccia da affrontare. Ha ragione dunque l’Economist a sostenere che la crisi in Ucraina è – oltre che una minaccia – un’opportunità per la Nato, un’opportunità per riconfermare il suo ruolo, la sua efficacia e la sua indispensabilità (soprattutto per i paesi europei).

La crisi nei Balcani negli anni ’90 ebbe la stessa funzione, l’intervento militare in Bosnia nel ’95, come rilevarono alcuni osservatori, era stato condotto per salvare la Nato dalla sua irrilevanza più che per salvare i bosniaci-musulmani dalle vessazioni serbe. Nel 2003, quando alla Nato fu affidato il comando di Isaf in Afghanistan, l’Alleanza Atlantica sembrava confermarsi ancora come l’istituzione militare di sicurezza più affidabile per gestire il “mantenimento della pace”. Le geometrie variabili della coalition of the willing dell’amministrazione Bush apparirono come campioni di fedeltà più che di efficacia. Altrettanto si può dire per le primavere arabe e l’incauto, per quanto rocambolesco, intervento in Libia nel 2011.

La crisi ucraina oggi s’impone nell’agenda della Nato e del summit a Newport (Galles) per certi versi in modo simile alle crisi del passato, ma per altri con un supplemento di incertezze e inquietudini maggiore. Se è vero, infatti, che le minacce sono un’opportunità per la coesione di un’alleanza, è anche vero che l’ordine di gravità che le distingue e, soprattutto, il tipo di tensioni che crea al suo interno rischiano di mettere in crisi l’alleanza stessa. L’evoluzione politica e il conflitto degli ultimi mesi in Ucraina, e sullo sfondo le tensioni fra paesi Nato e Federazione Russa, rappresentano una sfida significativamente diversa rispetto a quelle del passato. Per la prima volta si profila lo scontro con un nemico temibile. La posta in gioco non è più solo la credibilità dell’alleanza come nel caso della Libia, dell’Afghanistan e dei Balcani ma un confronto diplomatico e strategico – potenzialmente militare – con un attore, per la prima volta, temibile. Con la Russia, oggi, la Nato non può fare affidamento sull’asimmetria (finora a suo favore), ma deve fare i conti con la reciprocità, con un attore dalla forza politica e militare comparabile. Non stupisce, dunque, che la crisi ucraina domini il summit di Newport fino al punto di mettere in ombra, e in certa misura ignorare, il fallimento della missione in Afghanistan.

Ma soprattutto quella in Ucraina è una crisi che mette a nudo i nodi cruciali della trasformazione della Nato degli ultimi vent’anni, su tutti quello dell’allargamento dell’Alleanza. La vicenda ucraina rappresenta, infatti, il nodo, che presto o tardi doveva venire al pettine, del progressivo allargamento a est. Un allargamento che è stato vissuto come un accerchiamento dalla Federazione Russa e che, oltre un certo limite, avrebbe necessariamente incrociato un confine oltre il quale la Russia avrebbe posto resistenza. Era facile prevedere che l’Ucraina – come fu chiaro in Georgia nel 2008 – è parte di quel confine.

Gli Stati Uniti e la Nato hanno commesso due leggerezze negli ultimi anni. La prima, comune all’approccio con altre aree regionali (su tutte il Medio Oriente), è stato pensare che le dinamiche politiche nel mondo non occidentale siano esclusivamente indigene e non siano influenzate dalle politiche occidentali. Secondo questa linea di pensiero, lo Stato Islamico è frutto di una dinamica interna al mondo arabo del tutto comprensibile anche senza interrogarsi sulle politiche mediorientali degli Stati Uniti e dell’Occidente dell’ultimo ventennio. In modo analogo, i corsi della politica estera russa sono totalmente autonomi dalle politiche che i paesi Nato hanno condotto negli ultimi vent’anni. In questo quadro, l’allargamento dell’Alleanza è stato salutato – nei paesi occidentali – come un processo inclusivo, il cui unico risultato non poteva che essere l’espansione della zona di pace, di stabilità e di prosperità di cui godono i paesi Nato.

La seconda leggerezza, figlia della prima, è stata quella di alimentare la polarizzazione politica nei paesi aspiranti membri. Come in Georgia, in Ucraina le promesse di accoglienza della Nato hanno approfondito la spaccatura fra le due anime del paese, quella filo-occidentale e quella filo-russa. Non solo, la logica dell’allargamento ha prodotto una bolla di aspettative nelle élite politiche filo-occidentali di quei paesi. Una sorta di moral hazard, come lo chiamerebbero gli economisti, un incentivo a rischiare in ragione del premio assicurativo fornito dalla Nato.

Il vertice della Nato a Newport dovrebbe evitare d’indugiare sulla retorica, soprattutto quella che vorrebbe difendere la libertà dell’Ucraina di scegliersi i propri alleati, e non cogliere le implicazioni delle politiche di allargamento. Sarebbe un errore insistere sulla reiterata proposta dell’ammissione dell’Ucraina (sul tavolo dal 2008), riproponendo una liturgia dell’allargamento che, al momento, è uno dei maggiori ostacoli a una soluzione politica – quella sì inclusiva – per tenere unito il paese.

Andrea Carati, Università degli Studi di Milano e ISPI Associate Research Fellow

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