Quella di oggi è un’intervista davvero toccante e siamo molto felici di presentarvela. Il suo protagonista si chiama Hamdan Jiaw'i, ha 31 anni e vive a Betlemme. E’ il fondatore dell’ “Hamdan's Alternative Tours” e la sua storia è molto particolare. Hamdan è nato con una disabilità fisica alle gambe, che non gli permetteva di camminare. E’ quindi rimasto chiuso in casa, isolato dal mondo, fino a 11 anni, per volere della famiglia. Una “malformazione” di questo tipo non è accettabile per la società palestinese, ancora impreparata nella gestione del “diverso”. Ma poi un giorno ha trovato la forza di reagire.
Cosa ti ricordi della tua infanzia?
Sono stato isolato dentro una stanza a casa dei miei genitori per 11 anni perché per loro era una cosa strana avere un bambino così diverso dagli altri e se ne vergognavano. In Palestina si pensa che chi nasce con una malformazione non possa avere una vita normale. Io ho avuto l’opportunità di cambiare la mia condizione, un po’ per caso, con un pizzico di fortuna.
Non so se potete immaginate cosa voglia dire stare chiusi in una stanza per anni. E’ un po’ come quando si mette un gatto in una scatola: quello che era un animale bello e docile diventa aggressivo come un matto.
Così un giorno, quando mia madre ha aperto la porta della mia stanza per portarmi da mangiare, le ho dato una spinta e sono uscito in strada fuori di testa.
Avevo bisogno di libertà, di vedere altre persone, di uscire da quella stanza. A casa ero isolato, non avevo amici e non conoscevo né la mia famiglia né gli altri parenti. Tanto che quando finalmente sono uscito, i miei parenti si chiedevano chi fossi, perché non mi avevano mai visto.
Fuggito in strada mi ha visto dei vicini che mi hanno chiesto chi ero e cosa era successo perché anche loro non sapevano chi fossi. Mi hanno accolto in casa loro e hanno ascoltato la mia storia.
Cosa hai fatto allora?
Dopo qualche tempo sono andato in un centro sportivo per disabili vicino a Beit Jalla (una frazione di Betlemme). Sono stato lì per 6 mesi, poi piano piano ho cominciato a guardarmi intorno. Avevo tanta voglia d’andare avanti. Se penso a 15 anni fa, stento ancora a crede a quanta determinazione ho dovuto metterci per andare avanti! Ho iniziato facendo volontariato in organizzazioni per anziani, per bambini e alla fine per disabili. E piano a piano sono stato accettato dalla società, anche se c’è voluto tempo per superare la diffidenza. Credo però che quando prendi la decisione d’andare avanti e non temere cosa possa avere in serbo per te il futuro i cambiamenti arrivano.
La tua famiglia è stata un ostacolo?
La mia famiglia era contro il cambiamento, psicologico e culturale, che ho vissuto. Riconoscere che potessi essere e comportarmi come una persona normale, non era una cosa scontata, e solo la mia fuga di casa gli ha permesso di riflettere su quanto stava accadendo. E poi non c’era solo la mia famiglia, ma un intero contesto culturale e sociale che mi penalizzava. Per esempio, le mie sorelle hanno avuto difficoltà a sposarsi perché le famiglie degli sposi temevano che la presenza di un disabile in casa potesse essere la prova di malattie genetiche. Oggi ho un buon rapporto con la mia famiglia. Ho capito perché lo hanno fatto e che non era colpa loro.
Parlaci di come sei venuto in Europa e di come questo ti ha cambiato in maniera inattesa
Ho sempre cercato un modo per curarmi, studiare e lavorare, fare quindi ciò che mi era precluso in Palestina. Sono venuto in Italia per caso perché ho incontrato vicino alla Chiesa della Natività la notte di Natale un volontario inglese e un ragazzo italiano con cui siamo diventati amici. Li ho invitati a casa mia e ho raccontato loro la mia storia. Grazie a loro sono andato prima in Germania e poi in Italia.
Un giorno, vicino alla Fontana di Trevi, il mio amico italiano Filippo mi ha fatto incontrare un medico dell’ospedale di Colleferro che mi ha operato più volte per raddrizzare le mie gambe. Non potevo recuperare del tutto ma ho iniziato a camminare meglio. Sono rimasto a Roma altri 8 mesi. Poi è venuta la chiamata della “terra natia”, avevo voglia di ritornare in Palestina. E quando sono tornato a casa, l’ho fatto con il desiderio di portare dei cambiamenti sia nella mia famiglia che nella mia società.
E così è nata “Lighting the candles”?
Sì, ho fondato questa associazione per aiutare le persone a rendersi più indipendenti non solo a livello culturale ma anche economico. Per questo ho iniziato a organizzare campi-lavoro per i bambini e corsi gratuiti di inglese per le donne. Ai disabili spiegavo che loro potevano aspirare ad una vita piena, a lavorare autonomamente e a non sentirsi più un peso per le loro famiglie. Ho lavorato con molti disabili che vivevano situazioni ancora più difficili della mia nelle campagne e ho provato ad aiutare loro e le loro famiglie. Non è stato facile.
I disabili qui non hanno assistenza sociale, non hanno pensione, né cure né assistenza gratuite. Solo le organizzazioni internazionali aiutano un po’, temporaneamente. Qui l’assistenza medica è tutta privata: se hai soldi ti puoi curare, altrimenti niente. Quasi nessun disabile lavora e non ci sono programmi per insegnare ai genitori come affrontare i problemi che un figlio disabile comporta e come possano aiutarlo a scuola e a casa.
Cosa pensa la gente quando oggi ti vede così indipendente, così ottimista, a dispetto di tutto?
Io sono il lato positivo di questa storia: ho trovato il mio ottimismo nella forza di vincere la sofferenza. Se non si ha la possibilità di un cambiamento, non si trova questa forza. In questo sono stato anche fortunato: ad esempio nell’avere la possibilità di venire in Europa, uscir fuori di casa, imparare altre cose, tra cui l’inglese che ho poi avuto modo di praticare con tutti i volontari internazionali e gli amici che ho incontrato a Betlemme.
Che obiettivi ti poni per la tua nuova agenzia "Hamdan's Alternative Tours”?
E’ nata con l’idea di avviare un servizio di assistenza turistica alternativo e sociale. Organizzo spesso tour per visitare Betlemme portando in giro turisti di ogni nazionalità. Sono ormai anni che collaboro anche con l’ISPI incaricandomi della visita alla città per gli studenti del Master in Cooperation che vengono nei Territori palestinesi per il loro Study Tour. Poter incontrare i turisti è molto importante per me perché mi permette di conoscere nuove persone, confrontarmi con altre società, modi di fare e pensare. All’agenzia lavorano sia palestinesi che stranieri, amici che pensano di poter dare un contributo e credono anche nella lotta per la difesa dei diritti umani dei palestinesi.
La disabilità ormai non è più un ostacolo all’autonomia e alla dignità. La mia forza viene da un’anima complicata, che pensa e riflette prima di fare ogni cosa e che cerca sempre di far pendere la bilancia positivamente. Occorre forza, sia nella vita individuale che collettiva, e tanto tanto coraggio.