
Marco Morini
Sebbene sembri cominciata da anni, l’avvio ufficiale della campagna elettorale americana avverrà soltanto tra pochi giorni, con la conclusione delle convention dei due partiti e l’incoronazione dei rispettivi candidati: Hillary Clinton per i democratici, Donald Trump per i repubblicani.
Quella che si è osservata finora è stata una comunicazione politica caratterizzata dal trionfo della personalizzazione e degli slogan. Uno dei fattori che ha certamente contribuito alla vittoria di Trump nelle primarie repubblicane è stata la sua capacità di attrarre l’attenzione giornalistica nazionale e internazionale, garantendosi una costante e duratura copertura mediatica gratuita. Il miliardario newyorchese ha sfruttato appieno la propria conoscenza dei meccanismi dello showbiz – frutto dell’esperienza diretta degli stessi – e ha saputo utilizzare al meglio le piattaforme digitali a disposizione. La sua campagna elettorale, così come la costruzione della sua stessa candidatura, è iniziata senza una strategia precisa, ma è andata sedimentandosi e definendosi in uno stile proprio, fatto di slogan e brevissime dichiarazioni, ideali per un ‘take’ d’agenzia, un titolo di giornale, un’apertura delle news della sera. In pratica Trump ha fatto dei suoi tweets la propria piattaforma elettorale. D’altronde il suo elettorato di riferimento non ha avuto bisogno di manifesti programmatici o di impegni coerenti. La sua base elettorale, infatti, composta prevalentemente da elettori bianchi, maschi, poco istruiti e impoveriti dalla crisi economica, si è fieramente identificata in un candidato che non usa perifrasi e che urla i propri slogan senza timore di vergognarsi degli stessi o di mascherarsi dietro al politically correct. Trump ha saputo dare voce a un’America profonda, “arrabbiata” e anche delusa da altre figure repubblicane poco carismatiche o avviluppate in estremismi religiosi. Per vincere le primarie repubblicane sono quindi bastati gli attacchi agli immigrati, all’Islam e “make America great again”.
È evidente, tuttavia, che questo non basterà per conquistare la presidenza e la strategia di Trump dovrà necessariamente cambiare. La convention di Cleveland servirà a riempire di contenuti la sua proposta politica ed è lecito attendersi sorprese. Sarà interessante leggere la party platform che verrà pubblicata subito dopo la fine della convention per verificare quanto degli slogan rimarrà nel programma elettorale vero e proprio. Per esempio, è possibile ritenere che l’ostentato isolazionismo in politica estera proposto da Trump – spesso giustificato come una spending review tesa a reinvestire risorse sul territorio che finora sono servite a finanziare il protagonismo americano all’estero – vada a calmierarsi e lasci spazio a un approccio più pragmatico. Così come è lecito attendersi che le minacce di deportare musulmani fuori dal territorio statunitense scompaiano dal documento ufficiale della convention.
Se quindi finora la campagna di Trump può caratterizzarsi per un effetto di agenda-building sul contesto mediatico statunitense, cioè quello di aver letteralmente guidato l’attenzione giornalistica su quel tema o quell’altro – quella di Clinton sembra per ora avere una connotazione opposta, cioè quasi di andare a rimorchio degli eventi di cronaca. La campagna elettorale di Hillary Clinton – molto più professionalizzata, ricca di fondi e di personale – non ha finora mai saputo imporre i temi all’ordine del giorno. Esperienza, solidità ma anche cautela sono le caratteristiche della candidata democratica. Clinton ha fatto sentire la propria voce dopo la strage di Orlando, l’eccidio di Dallas, i conflitti tra polizia e afro-americani, ma non ha mai “anticipato” gli eventi, né dettato l’agenda. Forte del ruolo di favorita, della necessità di “sbagliare poco” e anche della volontà di non prestare il fianco a critiche e a possibili controversie legate alla sua lunga attività pubblica, alla vita privata, alla presidenza del marito e a veri o presunti ‘scandali’, Clinton ha finora preferito restare sulla difensiva, senza offrire una propria chiara visione dell’America futura. Una tendenza che è iniziata sin dal contesto delle primarie, dove la sua prevista incoronazione è stata complicata dall’entusiasmo e dalla forza programmatica offerta da Bernie Sanders, capace, al contrario dei due candidati ufficiali, di elaborare una profonda visione programmatica. I temi degli esclusi dal welfare, dell’impoverimento della classe media, della critica alla finanziarizzazione dell’economia, delle differenze sociali e dell’etica della responsabilità degli eletti e dei manager pubblici hanno convinto milioni di democratici – specie giovani e istruiti – ad appoggiarlo e hanno portato Clinton a esprimersi su questi. Sebbene le ultime dichiarazioni di Sanders siano suonate come un endorsement ufficiale alla candidata, sarà ugualmente cruciale osservare quante delle sue idee e delle sue proposte saranno incluse nel manifesto ufficiale del Partito Democratico.
Marco Morini, Senior Research Fellow in Scienza Politica presso l'Universita' di Padova