Il primo dibattito faccia a faccia fra Hillary Clinton e Donald Trump ha sostanzialmente confermato le previsioni della vigilia e sottolineato una volta di più i rapporti di forza che esistono fra i due candidati in corsa per la prossime presidenziali statunitensi. Anche la ‘vittoria ai punti’ che i media hanno attribuito all’ex Segretario di Stato rispecchia lo scarto ridotto che la separa nei sondaggi dal tycoon newyorkese (2,3 punti percentuali di media secondo i dati di Real Clear Politics, con una situazione di sostanziale parità nelle rilevazioni Reuters/Ipsos e Bloomberg). La prima impressione è che - nel confronto diretto - la maggiore esperienza politica della Clinton abbia ‘pagato’ più dalla volontà di Trump di affermare la propria credibilità come possibile Presidente. Forte dei quattro anni trascorsi alla guida del Dipartimento di Stato, il candidato democratico ha avuto gioco facile nel mettere in luce la scarsa esperienza del rivale in campo internazionale. Dal canto suo, il candidato repubblicano sembra avere subito più del previsto il fatto di dovere mostrare alle telecamere una postura ‘istituzionale’ ben lontana da quelle che sono state le corde toccate sino ad oggi. Nel complesso, comunque, il dibattito sembra avere messo in luce – più che la forza dei due sfidanti o le differenze dei loro progetti politici – le rispettive debolezze, con un Trump incerto, ripetitivo e spesso in affanno e una Clinton preoccupata soprattutto di minimizzare la portata del ‘mailgate’ e di alcune scelte (come il sostegno a suo tempo dato alla stipula del TPP) da cui - nel corso della campagna di questi mesi – ha cercato di prendere le distanze.
In questo senso, la serata di New York rispecchia bene la piega che il confronto Trump-Clinton ha assunto fin dall’inizio. Anche in questa occasione, infatti, obiettivo dei due candidati è apparso, in primo luogo, quello di mettere in luce l’inadeguatezza del rivale a occupare la poltrona dello Studio Ovale, se non il rischio che una sua vittoria potrebbe rappresentare per gli Stati Uniti, la loro sicurezza e la loro prosperità. Anche nel campo della politica estera, la componente ‘distruttiva’ sembra avere svolto il ruolo maggiore, con Trump duro verso l’attuale politica di Washington in Medio Oriente (politica di cui il candidato democratico sarebbe la continuatrice) e la Clinton tesa a sottolineare i rischi derivanti dalla posizione conciliante di Trump verso la Russia e le ambizioni di Putin in Siria e in Ucraina. Più che sui temi politici, gran parte del dibattito ha ruotato, quindi, sugli aspetti personali.
Le critiche ai suoi atteggiamenti sessisti e razzisti, oltre che alla reticenza a rendere pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi, hanno costituito una parte importante dell’armamentario polemico della Clinton nei confronti di Trump; allo stesso modo, il richiamo ai successi del marito in campo economico ha rappresentato - per la ex First Lady - uno strumento importante per rafforzare la propria immagine, legandola a quella che larghe fette dell’elettorato democratico continuano a vedere come una sorta di ‘età dell’oro’; un artificio retorico, questo, al quale Hillary Clinton ha già fatto ricorso varie volte in passato, specie nelle fasi in cui – come accaduto fra maggio e giugno - la sua popolarità e i suoi consensi sembravano in calo.
Grande assente appare, invece, la vasta platea di indecisi che, in queste elezioni, sembra destinata a fare la differenza. L’incapacità di garantire un salto di qualità rispetto a una campagna presidenziale sinora assai mediocre è forse l’aspetto più eclatante che emerge dal dibattito di New York. Si tratta di un dato importante, specie se letto in parallelo alla disaffezione verso l’establishment che le scorse primarie hanno messo in evidenza, sia sul fronte democratico, sia su quello repubblicano. L’impressione è che, di fronte a un Paese che fatica a ritrovarsi negli schemi ‘tradizionali’ di identificazione partitica, i due candidati abbiano scelto di puntare più su se stessi come figure ‘stereotipiche’ che su un progetto politico vero e proprio. Durante le primarie, questa strategia è apparsa pagante, nel caso di Hillary Clinton anche grazie alla sua capacità di mobilitare la macchina del partito. Oggi, invece, la conseguenza appare quella di favorire una corsa elettorale ‘al ribasso’, in cui (come è emerso anche dal faccia a faccia fra i due candidati) l’obiettivo diviene quello di sottrarre consensi al rivale più che quello di raccoglierne per sé. Un obiettivo, questo, che, se può essere sufficiente a garantire la vittoria nella consultazione dell’8 novembre, può essere foriero di conseguenze indesiderate su lungo periodo.
La debolezza degli attuali candidati è, in larga misura, prodotto di una debolezza di fondo del sistema dei partiti; debolezza che - avviata dal successo di una figura carismatica come quella di Barack Obama - rischia di essere rafforzata dallo scontro personalizzato fra i due candidati assai meno carismatici alla sua successione.
Gianluca Pastori è Professore associato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano