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Come gestire l’emergenza terrorismo e il rischio di attentati?
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Con ogni probabilità sarà questo il tema che dominerà il primo dibattito presidenziale tra Hillary Clinton e Donald Trump. Gli attentati di New York, New Jersey e Minnesota degli scorsi 17–19 settembre hanno riportato i temi della difesa e della sicurezza nazionale al centro dell’attenzione. Questi avvenimenti, in competizioni elettorali "normali", favorirebbero il candidato del partito Repubblicano, percepito come dotato di un approccio più "muscolare". Ma di normale in questa competizione non sembra esservi molto. I sondaggi, infatti, suggeriscono l’esatto contrario: secondo una rilevazione dello scorso giugno, effettuata dopo l’attacco di Orlando, il 50% degli americani considera Clinton in grado di gestire la minaccia terroristica (+8% rispetto a maggio), mentre solo il 39% pensa questo di Trump. Del resto, Clinton è percepita come un "falco" all’interno del partito Democratico, elemento che le permette di distanziarsi tanto dall’approccio attendista – per alcuni passivo – di Obama, quanto dall’isolazionismo mescolato alla xenofobia di Trump.
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L’eredità di Obama: quale futuro per l’America?
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Il secondo argomento di dibattito sarà il punto di vista dei candidati sulla direzione futura dell’America, argomento in cui rientra l’opinione sui risultati raggiunti dall’amministrazione Obama. Tra questi, la riforma sanitaria, la legge sull’immigrazione e gli accordi con Cuba e l’Iran. Nel suo programma elettorale, Clinton si impegna non solo a salvaguardare la riforma sanitaria ma anche ad estenderne i benefici mentre Trump, che giudica la cosiddetta Obamacare troppo costosa e inefficiente, vorrebbe revocarla e permettere una maggiore concorrenza tra le compagnie assicurative. L’immigrazione è un altro tema caldo per i candidati ed entrambi vogliono affrontarlo nei primi giorni di governo. Ma se Clinton propone, tra le varie misure, un più rapido percorso per il ricongiungimento familiare per facilitare l’integrazione dei migranti, Trump intende costruire un muro con il Messico, aumentare il personale assegnato ai controlli e inasprire le pene per chi entra illegalmente. Infine, la rimozione dell’embargo con Cuba vede entrambi i candidati favorevoli anche se Trump avverte di essere disposto a revocare le concessioni di Obama se non viene garantita maggiore "libertà politica" sull’isola. Per quanto riguarda l’Iran, Clinton considera l’accordo un successo ma si dice pronta a ricorrere anche a misure militari se Teheran non dovesse rispettarlo. Trump, invece, ha definito più volte l’intesa come "disastrosa" ma non è chiaro cosa questo possa implicare nel caso fosse eletto presidente.
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Le ricette economiche: più welfare o più protezionismo?
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Il terzo argomento di dibattito riguarda le proposte in campo economico. Gli Stati Uniti sono reduci da una doppia recessione, segnata da bolle nel mercato finanziario e in quello immobiliare, alla quale ha però fatto seguito una decisa ripresa. Le proposte di entrambi i candidati si focalizzano sulla promessa di diminuire ulteriormente il tasso di disoccupazione (attualmente al 5%), portandolo ai livelli pre–crisi (attorno al 4%). Le misure più dettagliate in tema di lavoro vengono da Clinton: aumento del salario minimo, miglioramento del welfare per favorire l’occupazione femminile, agevolazioni fiscali per le imprese che condividono gli utili con gli impiegati e offrono percorsi di apprendistato. Per il candidato democratico questi interventi saranno finanziati con un aumento della pressione fiscale sulle fasce più abbienti (+$1,1 trilioni di entrate fiscali in 10 anni). Al contrario, Trump – pur avanzando proposte più vaghe, che lasciano quindi maggior margine d’azione per cambiamenti di idee – intende sostenere i lavoratori americani attraverso una politica commerciale più protezionista: penalizzazioni per le imprese manifatturiere statunitensi che delocalizzano e innalzamento di barriere tariffarie verso Messico e Cina. Misure, queste, a cui si accompagnano tagli fiscali per le imprese (da 35% a 15% la tassa sui redditi d’impresa) e fasce più abbienti (da 39,6% a 25% la tassa sul reddito delle persone fisiche) che porterebbero a una diminuzione delle entrate fiscali pari a $9,6 trilioni in 10 anni, con un impatto potenzialmente notevole sulle finanze pubbliche già sotto stress.
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