Il Kenya guarda con scetticismo e preoccupazione il processo elettorale nella confinante Somalia consapevole che il nuovo parlamento, governo e presidente della Repubblica difficilmente saranno in grado di funzionare. Il Daily Nation (il quotidiano più diffuso ed autorevole del paese) parla senza mezzi termini di “elezioni farsa” così come denunciò nello scorso novembre Nur Jimale Farah, il responsabile somalo della vigilanza sulle operazioni di voto: “Le elezioni non hanno credibilità a causa della compravendita dei voti, dei brogli e della violenza. I 14 mila delegati che devono eleggere i rappresentanti del parlamento stanno votando per il miglior offerente. Il prezzo dei voti va dai 5 mila ai 30 mila dollari. Come è già successo in passato, i fondi per questi traffici provengono dai ricchi paesi arabi che appoggiano i vari candidati”.
Il giornale inoltre accusa la comunità internazionale di “fingere che tutto vada bene anche di fronte ad alcuni signori della guerra che si sono candidati al parlamento per garantirsi l’immunità”. Il prossimo 8 agosto anche gli elettori kenyani saranno chiamati a rinnovare il parlamento ed eleggere il presidente della Repubblica. Appare scontata la riconferma di Uhuru Kenyatta, proclamato per la prima volta nel 2013: i sondaggi lo danno vincitore con un ampio margine. Una rielezione dovuta non certo ai meriti del figlio del primo presidente del Kenya decolonizzato quanto alla mancanza di una opposizione politica seria e credibile nei confronti di un corpo elettorale che vota su base rigidamente etnica con il blocco di maggioranza guidato dai kikuyu che si oppone alla minoranza di luo, luya e kalenjin. Sembra così ripetersi la rodata strategia del “divide et impera” inaugurata dagli antichi colonizzatori inglesi.
Tra l’altro Uhuru Kenyatta nel 2015 è uscito “miracolosamente” indenne dal processo avviato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia che lo ha accusato di crimini contro l’umanità commessi durante i disordini postelettorali del 2007-2008: avrebbe pianificato omicidi di massa per eliminare gli oppositori politici. I giudici (dopo un processo segnato da morti sospette, sparizioni e ritrattazioni di testimoni) hanno ritirato le accuse ed archiviato il caso riservandosi però di riaprirlo se emergessero nuovi elementi.
Il processo a Kenyatta ha costituito l’ennesima occasione per l’Unione Africana di contestare l’operato della Corte Penale Internazionale dell’Aia, accusata di perseguire solo i leader africani dimenticando troppo facilmente le malefatte di tutti gli altri spregiudicati capi di stato. In concreto la messa sotto accusa del presidente ha spinto ulteriormente il Kenya nelle braccia della Cina, che qui è il primo partner economico straniero. La marcia trionfale di Kenyatta verso la riconferma sarà celebrata nel prossimo giugno (a ridosso quindi delle elezioni) quando sarà inaugurata la rinnovata ferrovia Mombasa – Nairobi, completamente ristrutturata grazie ai capitali cinesi e che in un futuro prossimo collegherà uno dei porti più importanti dell’Oceano Indiano con Uganda, Sud Sudan e Rwanda. Prevedibili le ricadute positive sull’economia (trasporto merci rivoluzionato), altrettanto intuibile l’impatto ambientale dell’opera che rischia di compromettere il turismo che resta la prima voce delle entrate.
È il progetto più ambizioso e costoso che il Kenya ha avviato dalla indipendenza conseguita nel 1963, il palcoscenico su cui il crescente ceto medio-alto potrà glorificare la modernità del paese. Poco conta che la maggioranza dei kenyani viva con meno di due euro al giorno e che gli analisti più attenti mettano in guardia dall’indebitamento e dalla dipendenza economica e tecnologica che si sta creando con Pechino per i decenni a venire.
Corsa alla modernità, boom dell’edilizia di lusso (o meglio una bolla immobiliare alimentata dal riciclaggio di capitali sporchi stranieri, dal traffico con la Somalia di armi e foglie di qat – droga naturale con effetti simili alla cocaina – e da affari poco chiari di banche alcune clamorosamente fallite) si coniugano con un paese in guerra. Infatti anche se non si dice apertamente, il governo di Nairobi è ufficialmente in guerra con i seguaci di al-Shabaab già dal 2011 quando inviò 3.600 soldati nelle regioni meridionali della Somalia al confine con il Kenya proprio per contenere l’azione dei terroristi islamisti che di fatto controllavano i confini tra i due paesi. Oggi il contingente kenyano è parte integrante della missione militare Amisom (African Union Mission to Somalia) che, avviata nel 2007 sotto l’egida delle Nazioni Unite, ha prodotto risultati molto al di sotto delle aspettative anche per i numerosi episodi di corruzione ai massimi vertici. Il Kenya è diventato così un facile bersaglio.
Lo scorso 27 gennaio i terroristi hanno assaltato una base militare nel sud della Somalia uccidendo decine di soldati. Analoghi attacchi sono stati sferrati negli anni precedenti, causando centinaia di vittime tra i militari, il cui numero non è mai stato reso noto dalle autorità di Nairobi. E poi gli attacchi terroristici contro i civili inermi: la strage nel centro commerciale di Westgate del 2013 e l’eccidio degli studenti nell’università di Garissa a Pasqua del 2015, senza contare le centinaia di agguati (anche alle fermate dei bus contro passeggeri in attesa) che hanno mietuto un numero di vittime ben più alto dei sopracitati massacri.
In questo complesso scenario si inserisce l’ordine di sgombero del campo profughi di Dadaab, passato tristemente alla storia per essere stato il più grande al mondo. Attualmente ospita 276 mila rifugiati. Si affollano su un’area più estesa di Firenze, con un diametro di 30 chilometri. Sorge in territorio kenyano a 64 chilometri dal confine con la Somalia. Nacque come insediamento temporaneo nel 1991 allo scoppio del conflitto civile somalo quando orde di disperati si riversarono qui per sfuggire alla violenza. È arrivato ad accogliere fino a 600 mila persone alloggiate in tende putrescenti, senza fogne, acqua corrente, servizi. Nonostante condizioni di vita difficilissime, a Dadaab si sono sviluppati grandi scambi economici tanto da trasformare la zona in un hub commerciale, come sostiene il quotidiano francese Le Monde. Infatti il campo profughi consente all’esecutivo di Nairobi di incassare 100 milioni di dollari all’anno (in tasse ed introiti vari) e fornisce 10 mila posti di lavoro ai rifugiati, alla popolazione locale ed al mondo umanitario.
Dadaab è paradossalmente la principale fonte di lavoro in una provincia abbandonata dal governo fin dalla indipendenza. I kenyani vendono ai rifugiati bestiame, cibo in scatola, latte, vestiti, libri. I somali invece smerciano materiale elettronico e prodotti agricoli a buon mercato. Gli introiti che la comunità locale trae dal campo profughi sono di 14 milioni di dollari all’anno, pari al 25% del pil della provincia di Dadaab. Ma le circa 5 mila attività commerciali hanno anche acuito la povertà perché hanno escluso dai benefici quanti (e sono la maggioranza) non hanno capacità di iniziativa imprenditoriale, creando così evidenti disparità tra i profughi, a cui è vietato allontanarsi dal campo.
Dopo la strage di Garissa, l’esecutivo di Nairobi ne ha ordinato la chiusura perché il campo ospiterebbe un traffico di armi con gli al-Shabaab di cui non sono mai state rese note le prove. Le imminenti elezioni (e la necessità di offrire in pasto agli elettori un po’ di facile propaganda) hanno poi messo il turbo alla decisione. Un frettoloso accordo sottoscritto nel 2013 dai governi di Somalia, Kenya e dall’Unhcr (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) stabiliva che i rimpatri sarebbero stati volontari e diretti solo verso zone della Somalia sicure. Ma a quattro anni da quello sciagurato accordo, la situazione è addirittura peggiorata. Il governo somalo non riesce a garantire la sicurezza neanche a Mogadiscio dove ha sede: la prova sono i continui attentati a cui non sfuggono neanche i membri dell’esecutivo. Inoltre non ci sono strutture di nessun tipo in grado di accogliere i rifugiati che dovrebbero farvi ritorno: la capitale è infatti costellata di tende malandate in cui cercano di sopravvivere quanti non possono fuggire da Mogadiscio, un vero e proprio “inferno dei vivi”. Fuori dalla capitale, il territorio è controllato dagli integralisti islamici e l’insicurezza è tale che non si sono potute tenere le elezioni.
Lo scorso ottobre sono stato a Dadaab per realizzare un reportage per Rainews 24. I profughi sono costretti ad andare via. Insomma si tratta di rimpatri forzati. A ciascun componente di una famiglia vengono elargiti 200 dollari (meno 50 dollari trattenuti per il viaggio in aereo) come incentivo: la promessa vaga di poter avviare una piccola attività commerciale, sopravvivere i primi tempi in una città (Mogadiscio) in cui il costo della vita è paradossalmente più caro di Tokyo. Moltissimi profughi rimpatriati nei mesi scorsi sono già ritornati a Dadaab dove nonostante tutto si vive più sicuri che a Mogadiscio. Insomma Dadaab è diventato un luogo del desiderio e della memoria anche se chi vi fa ritorno perde tutti i diritti all’assistenza. Va sottolineato che dal 1991 ad oggi almeno tre generazioni di somali sono nate e cresciute nel campo. Non conoscono nulla del loro paese d’origine se non attraverso i racconti dei genitori ma conoscono pochissimo anche del Kenya, la nazione in cui sono nati, perché l’hanno sempre osservata solo attraverso le invisibili sbarre che separano il campo dalla realtà. Ma queste persone sono disposte a tutto pur di sfuggire alla violenza che da 26 anni attanaglia la Somalia. E cresce il rischio che questa umanità dolente possa trasformarsi in una nuova bomba umanitaria in grado di travolgere Somalia e Kenya.
Enzo Nucci, corrispondente Rai da Nairobi (Kenya)