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Commentary

Tunisia cinque anni dopo la rivoluzione: i sogni restano, la politica latita

Clara Capelli
18 January 2016

“Cosa resta di quei bei giorni?”. Così esordiva solo un anno dopo la Rivoluzione della Dignità, l’opera teatrale Monstranum di Ezzedine Gannoun, realizzatore piuttosto noto in Tunisia. In un grottesco carnevale di meschini personaggi, Gannoun sbatteva in faccia a tutti l’amara verità: i tunisini si erano liberati di Ben Ali, ma il nizam (sistema) di cui esigevano la caduta era ancora lì per soffocare qualunque sogno di rinnovamento.

Il 14 gennaio 2016, 5 anni dopo la fuga di Ben Ali, questa mesta sensazione sembra essersi ulteriormente acuita. La Tunisia del Premio Nobel per la Pace rievoca rassegnata la determinazione e le aspettative di quei mesi tra le fine del 2010 e l’inizio del 2011. I tre attentati dell’anno appena passato (il 18 marzo al Museo del Bardo di Tunisi, il 26 giugno in un resort di Sousse e il 24 novembre contro un autobus della Guardia Presidenziale nel centro di Tunisi) hanno inoltre assestato un duro colpo a quella che dopo le elezioni legislative e presidenziali del 2014 sembrava essere l’unica esperienza di successo della cosiddetta “Primavera Araba”.

I media generalisti italiani hanno commemorato questo quinto anniversario intonando il trito ritornello del Paese ostaggio della lotta fra laici e musulmani su cui incombe la minaccia dell’oscurantismo e della violenza terroristica. Dall’Italia sfuggono però alcuni elementi chiave.

Innanzitutto, sebbene i risultati elettorali del 2014 non abbiano riconfermato a Ennahda – il partito dell’Islam politico – la maggioranza ottenuta alle elezioni dell’autunno 2011 per l’Assemblea Costituente, quest’ultimo è attualmente parte di una coalizione di governo con Nidaa Tunes, formazione considerata “laica” che raccoglie al suo interno una serie eterogenea di personalità ed esperienze politiche delle presidenze Bourguiba e Ben Ali.

Nidaa nacque nel 2012 proprio dalla volontà di contenere Ennahda. La sua campagna elettorale nel 2014 gravitò intorno alla necessità del “voto utile, perché i tunisini scegliessero in massa Nidaa in funzione anti-Ennahda. Questa alleanza politica – the rotten compromise, come l’ha definito la ricercatrice Nadia Marzouki – continua a essere oggetto di un dibattito che origina da questioni di natura politica e non tanto di identità, dalla preoccupazione che il sistema clientelare – il nizam, appunto - che ha vessato la Tunisia per decenni continui a replicarsi attraverso la formazione di nuovi accordi e patti ai danni dei cittadini stessi. Anche la recente ricomposizione interna di Nidaa che ha portato al rimpasto di governo il 6 gennaio e un controverso congresso il 9 gennaio è da leggere piuttosto con queste lenti.

In secondo luogo, all’Italia – ma anche a una buona parte della borghesia progressista tunisina – continua a non essere chiara che la questione identitaria passa anche per importanti e urgenti problemi socio-economici le cui radici affondano nella storia passata del Paese. Le richieste di un sistema che garantisse occupazione e giustizia sociale rimangono completamente disattese dalla politica tunisina, la quale continua a non avere una strategia per lo sviluppo del Paese. Anche le regioni dell’interno, protagoniste delle proteste del 2011, stagnano nell’emarginazione senza che da Tunisi arrivi una qualsivoglia proposta.

Non dovrebbe quindi sorprendere che la radicalizzazione di cui sono espressione i giovani foreign fighters tunisini in Siria o gli esecutori degli attacchi del 2015 si concentri in buona sostanza proprio in queste zone, oppure nei quartieri popolari e periferici della capitale. La risposta è andata invece in tutt’altra direzione: ogni attentato si è accompagnato a una stretta securitaria sempre più forte, ai danni della società civile così come di tanti invisibili le cui storie non trovano spazio né sui media né sui social network.

Di quei bei giorni resta un popolo ai cui sogni manca (ancora) la politica per strutturarli e attuarli e un nizam chiuso fra le sue logiche e i suoi interessi che cinque anni dopo quel 14 gennaio si permette di rimanere sordo a ogni richiesta di cambiamento.

 

Clara Capelli, @clariscap

 

* Questo articolo riflette il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale.

 

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