La Missione multidimensionale integrata di stabilizzazione del Mali delle Nazioni Unite (Minusma) l’ha definito “un attacco senza precedenti”. Quello andato in scena alle 14, ora locale, di sabato 14 aprile a Timbuctu contro le basi dell’ONU e di Barkhane, contingente francese nel Sahel, rappresenta un vero e proprio attestato di maturità per le forze neo-jihadiste attive in Africa occidentale. Dopo più di cinque anni dal suo scoppio, il conflitto in Mali continua a peggiorare e si è inesorabilmente espanso alla regione del Sahel, nuovo fronte prioritario della guerra al terrorismo globale.
L’azione contro l’aeroporto di Timbuctu, zona militarizzata che ospita il quartier generale della Minusma - il cosiddetto “super-camp” - e di Barkhane in città, è stata complessa e ben organizzata. Dell’attacco durato oltre quattro ore colpisce la precisa coordinazione di diverse tecniche militari, precedentemente mai utilizzate insieme: lancio di undici granate di copertura, utilizzo di almeno due autobombe mascherate da veicoli ONU e FaMa (l’esercito del Mali) per aprire una breccia nel dispositivo di sicurezza dell’aeroporto, assalto via terra di una cinquantina d’uomini pesantemente armati (molti indossavano cinture esplosive e finti caschi blu).
“Agivano come un esercito”. “Erano determinati a prendere il controllo della base per arrecare più danni possibili”. “Si battevano con determinazione senza fuggire lo scontro diretto”. Nei racconti dei militari sopravvissuti si evince un salto di qualità tecnico-operativa ma anche nell’atteggiamento tattico del commando rispetto a passati attacchi decisamente più “fai-da-te”. Una professionalizzazione sottolineata dagli esperti di sicurezza nel Sahel che hanno analizzato l’attentato di Timbuctu.
Vista la potenza di fuoco e l’effetto sorpresa, fattore determinante in questo tipo di operazioni, il bilancio dell’assalto sarebbe potuto essere molto grave. Ma la risposta dei militari della Minusma e dei francesi - che hanno impiegato quattro aerei Mirage 2000 decollati dalla base di Niamey, nel vicino Niger, due elicotteri Tigre e tre Caiman carichi di soldati a rinforzo - ha permesso di contenere, almeno parzialmente, le perdite: un casco blu burkinabé ucciso e una decina rimasti feriti (di cui cinque gravemente), sette soldati di Barkhane colpiti (ed evacuati verso l’ospedale della base di Gao), quindici terroristi uccisi e una decina di civili maliani, fra cui un bambino di dieci anni, raggiunti da pallottole vaganti. Persino l’aeroporto cittadino, unico scalo regionale utilizzato dalle forze internazionali ma anche dalle organizzazioni umanitarie per il trasporto di aiuti alimentari, materiale medico e scolastico, è stato seriamente danneggiato, riproponendo la volontà dei gruppi armati di acuire il senso di abbandono d’intere comunità periferiche per arruolare forze fresche.
Come un’Idra, la galassia jihadista saheliana non pare soffrire la perdita di alcune “teste” per mano dei francesi - raid aerei a fine marzo e inizio aprile hanno eliminato due importanti quadri quali Abou Abdallah Ahmed al-Chinguiti e Haidar al-Maghribi - cambiando continuamente pelle e strategia. Una pletora di sigle raggruppate un anno fa sotto il cappello del Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani (GSIM), formazione guidata dal terrorista maliano Iyad Ag Ghali che ha già rivendicato molti attacchi fra cui quello di Timbuctu. Un sodalizio di differenti gruppi armati e mafie del narcotraffico sotto l’egida di Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI), indiscusso padrino del jihadismo africano. Da registrare anche la recente nascita, nella zona, di formazioni che si rifanno al cosiddetto Stato Islamico del Grande Sahara, sigla nata nel 2015 che oggi gode dello spostamento di risorse, uomini e tecniche di guerriglia dai teatri di Siria e Iraq verso il Sahel, nuovo terreno di conquista dell’espansione jihadista globale.
Già prima di tale attentato la situazione in Mali non era delle migliori. In un rapporto stilato a inizio aprile l’ONU riporta 63 attacchi terroristi (con 45 soldati maliani caduti) nei primi tre mesi del 2018. 163 caschi blu rimasti uccisi dall’estate 2013 attestano la Minusma come missione più pericolosa della storia delle Nazioni Unite. Inoltre il dialogo fra ribelli indipendentisti tuareg e governo di Bamako, promosso dagli Accordi di pace firmati ad Algeri nel 2015, sta attraversando l’ennesima fase di arenamento, precludendo cronicamente la via negoziale. Ampie zone del paese sfuggono al controllo dell’autorità centrale che, in vista delle prossime elezioni presidenziali del 29 luglio, teme un vuoto di potere che potrebbe essere sfruttato dalle forze jihadiste per seminare il caos. Dal nord del Mali l’azione di questi gruppi si è da tempo allargata al centro-sud deteriorando le condizioni sociali e umanitarie d’intere comunità locali. Scuole chiuse per circa 200mila studenti, aumento degli sfollati interni, crisi economica sempre più profonda. E, come se non bastasse, si aggiungono gli abusi di potere perpetrati dall’esercito maliano, accusato da recenti report di Amnesty International e Human Rights Watch di decine di esecuzioni sommarie a danno dei civili, soprattutto d’etnia peul. Lo spauracchio dell’etnicizzazione del conflitto viene agitato da milizie comunitarie vicine al governo (e ai francesi) e nuovi gruppi armati di autodifesa che intrattengono rapporti pericolosi con la rete narco-jihadista, complicando non poco un quadro già fosco.
Negli ultimi anni il conflitto asimmetrico nato in Mali si è esteso a paesi limitrofi come Niger - dove, nella regione settentrionale di Tillaberi, confinante col Mali, un operatore umanitario tedesco è stato rapito l’11 aprile - e Burkina Faso - dove, nella capitale Ouagadougou il 2 marzo è stata attaccata, per la prima volta nella regione, un’ambasciata francese. Alla luce della crescente regionalizzazione del confronto armato, il dispiegamento della Force G5-Sahel, dispositivo multinazionale nato nel 2014 su forte pressione della Francia ma ancora non operativo, diventa sempre più urgente. L’esercito formato da 5mila soldati dei paesi del G5-Sahel (Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad), sarà attivo soprattutto nella regione del Liptako Gourma, insidioso spazio transfrontaliero fra Mali, Burkina Faso e Niger infestato dagli uomini del GSIM e del nascente Stato Islamico nel Grande Sahara.
“Non penso sarà possibile risolvere il problema in Mali in meno di dieci, quindici anni” ha ammesso a fine febbraio il Generale François Lecointre, capo dello Stato Maggiore francese davanti a un gruppo di parlamentari che lo incalzava. Un pantano, quello saheliano, che costa alle casse di Parigi oltre 600 milioni di euro l’anno e che promette ulteriore distruzione, morte e disperazione a popolazioni locali sempre più esposte alla radicalizzazione.