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Commentary

L’attacco di London Bridge: delitto senza castigo?

Francesco Marone
02 December 2019

Venerdì 29 novembre intorno alle 14.00 locali un uomo ha accoltellato alcune persone sul London Bridge, nel centro della capitale britannica.

Alcuni passanti sono riusciti a fermare l’aggressore e a sottrargli il coltello ancor prima dell’arrivo delle forze dell’ordine. L’uomo, che indossava un giubbotto esplosivo (rivelatosi poi finto), è stato ucciso da un agente della polizia.

È presumibile che l’uso di un giubbotto esplosivo fasullo, già presente in altri attacchi terroristici di matrice jihadista, avesse presumibilmente l’obiettivo di seminare il panico nel pubblico e forse persino di indurre le forze dell’ordine a uccidere l’attentatore stesso, nella logica di una missione genuinamente suicida  interpretata come atto di martirio.   

La polizia britannica ha dichiarato ufficialmente che l’atto di violenza aveva una matrice terroristica. Peraltro, il luogo dell’aggressione era già stato teatro di un altro attacco di ispirazione jihadista, con modalità di esecuzione abbastanza simili (compreso l’uso di giubbotti esplosivi), il 3 giugno 2017; in quell’occasione tra i tre attentatori figurava anche l’italo-marocchino Yussef Zaghba.

Nella tarda serata del 29 novembre è stata rivelata anche l’identità dell’accoltellatore: Usman Khan, ventottenne cittadino britannico, nato e cresciuto in Inghilterra.

Appena diciannovenne, Khan era stato arrestato con altri otto simpatizzanti di al-Qaida per aver pianificato attacchi terroristici con ordigni esplosivi contro la Borsa di Londra ed altri obiettivi potenziali della città e per aver cercato di costituire un campo di addestramento jihadista in Pakistan in un terreno di proprietà della famiglia.

Ancor prima, Khan era stato in contatto con l’organizzazione islamista al tempo nota come al-Muhajiroun (oggi posta fuori legge) che, pur non essendosi mai impegnata direttamente in attività terroristiche, è stata coinvolta in numerosi casi di estremismo violento nel Regno Unito.

Nel corso di un complesso iter processuale, Khan era stato condannato a sedici anni di reclusione e, scontata metà della pena, era infine uscito dal carcere nel dicembre 2018. Da allora era “in libertà condizionale” (on licence). Fin dal 2012, Khan aveva chiesto di partecipare a percorsi di deradicalizzazione.

Il giorno dell’attacco l’uomo si trovava nel centro di Londra proprio per partecipare a un evento di riabilitazione, organizzato a poca distanza dal London Bridge. L’azione terroristica è iniziata già all’interno della sede dell’evento e le due giovani vittime dell’accoltellamento (Jack Merritt, 25 anni, e Saskia Jones, 23) erano tra gli organizzatori dell’iniziativa.   

Secondo le informazioni attualmente disponibili, Khan avrebbe preparato ed eseguito l’attacco da solo, senza alcuna connessione con un gruppo armato o con altri estremisti. Il coltello impiegato nell’aggressione sarebbe stato ottenuto il giorno prima.

L’attacco all’arma bianca non ha richiesto conoscenze e competenze particolari. Il giubbotto esplosivo, come detto, era finto. Spicca la differenza in termini organizzativi ed operativi tra questo attacco e i piani terroristici, ben più complessi, elaborati da Khan e dai suoi otto compagni di lotta nel 2010.

L’elemento più clamoroso dell’attacco di London Bridge è con ogni probabilità il fatto che l’attentatore fosse già stato condannato per gravi reati legati al terrorismo e fosse in libertà condizionale, nonostante fosse stata riconosciuta più volte la sua pericolosità.

Questo aspetto della vicenda solleva evidentemente il problema della gestione di soggetti condannati per terrorismo dopo il rilascio dal carcere. Da un lato, nel complesso – al di là di questo caso specifico, per quanto rilevante –, è opportuno osservare come alcuni studi recenti abbiano sostenuto, con alcune eccezioni, che nei paesi occidentali il tasso di recidiva per il terrorismo tenderebbe a essere basso; tra l’altro, sarebbe decisamente più ridotto di quello per i reati comuni. In altre parole, l’eventualità che una persona reclusa per reati legati al terrorismo sia responsabile di un altro crimine dopo l’uscita dal carcere è infrequente.

Nondimeno, il tasso di recidiva, per quanto possa essere basso, evidentemente non è uguale a zero: oltre all’attacco di London Bridge per mano di Khan, si possono ricordare purtroppo altri casi recenti in Occidente. Senza considerare che alcuni attacchi di matrice jihadista hanno avuto luogo persino all’interno di istituti penitenziari. Il problema è degno di particolare attenzione se si pensa che in Europa nei prossimi anni centinaia di jihadisti potranno lasciare il carcere.

La vicenda di Usman Khan pone certamente in evidenza, a posteriori, alcuni difetti e distorsioni nel sistema britannico. Lo stesso premier Boris Johnson, nel mezzo della campagna elettorale per il voto del 12 dicembre, ha riconosciuto errori e fallimenti e ha aggiunto che il governo britannico sta procedendo con urgenza a controllare 74 casi di soggetti condannati per reati gravi legati al terrorismo che sono stati già rilasciati dal carcere in anticipo rispetto a quanto originariamente previsto.

Subito dopo l’avvio di questa revisione da parte delle autorità britanniche, un altro membro della cellula di Khan è stato arrestato domenica 1° dicembre; la polizia ha comunicato che l’arresto non è connesso all’attacco di London Bridge e non è dovuto alla presenza di un rischio immediato per la sicurezza pubblica.

Come accennato, Usman Khan aveva deciso di prender parte volontariamente a un percorso di deradicalizzazione e si trovava nei pressi di London Bridge per questa ragione, nella beffarda veste di testimone di una storia di successo. Appare chiaro che l’uomo sia riuscito a dissimulare abilmente il suo reale atteggiamento nei confronti dell’estremismo violento di matrice jihadista.

D’altra parte, quasi come in un romanzo di redenzione, tra le persone che hanno affrontato Khan vi era un uomo che si trovava in liberta vigilata per aver ucciso una ragazza disabile nel 2003: una traiettoria, per molti versi opposta a quella di Khan, di (parziale) riscatto.    

Nel caso dell’attentatore di London Bridge il fallimento del percorso di riabilitazione appare eclatante. Nondimeno, sarebbe un grave errore giungere alla conclusione che le iniziative di deradicalizzazione non siano efficaci e vadano addirittura smantellate. Questi programmi “soft” – complementari agli strumenti “hard” di carattere repressivo, appannaggio della magistratura, delle forze dell’ordine e delle agenzie di intelligence – colmano infatti una lacuna importante nell’impegno per il contrasto all’estremismo violento e, sebbene sia necessario approfondire la valutazione degli esiti delle singole iniziative, i casi di successi non mancano.

Peraltro, in termini generali, si può congetturare che i percorsi di deradicalizzazione all’interno delle carceri possano presentare alcuni punti di forza rispetto a quelli condotti in altri ambienti perché i soggetti possono essere assisiti e controllati lungo archi di tempo lunghi (per esempio, numerosi anni di detenzione), mantenendo al contempo una distanza fisica e sociale con cerchie e conoscenze estremistiche attive fuori dal carcere.

L’accoltellamento di London Bridge è anche l’ultimo di una lunga sequenza di attacchi terroristici in cui l’attentatore era già conosciuto dalle autorità. È interessante rilevare come, specialmente in questa fase, i militanti jihadisti siano spesso già ben noti per la loro adesione alla causa estremistica: basti pensare ai foreign fighters di ritorno (returnees), dopo essersi uniti appunto a gruppi armati jihadisti.

Sotto questo profilo, è possibile comprendere (senza per questo giustificare necessariamente) la decisione controversa della maggior parte dei paesi europei di non impegnarsi attivamente per il rimpatrio dei propri foreign fighters presenti in Siria e Iraq (e specialmente dei maschi adulti).

Il fatto che militanti e, al limite, veri e propri attentatori possano essere già conosciuti dalle autorità potrebbe essere associato ad aspetti positivi: l’avversario è appunto già noto e, in linea teorica, dovrebbe essere più facile fronteggiarlo. Nondimeno, casi come quelli di Usman Khan mostrano come per le democrazie liberali dell’Occidente non sia affatto agevole verificare le reali intenzioni di individui sospettati di aderire a cause violenti e, in ogni caso, controllarne e monitorarne gli effettivi comportamenti, tanto più in paesi come il Regno Unito e la Francia in cui il numero di tali soggetti è molto elevato.

L’attacco di London Bridge ha interrotto un periodo relativamente quieto rispetto alla minaccia terroristica di matrice jihadista in Occidente, confermato da una riduzione significativa dopo il 2017 del numero e della letalità degli attacchi portati a termine. Peraltro, a posteriori, ha attirato attenzione e anche critiche il fatto che nel Regno Unito il livello d’allerta per il terrorismo fosse stato ufficialmente ridotto a “sostanziale” (un passaggio dal quarto al terzo livello sui cinque previsti in ordine crescente di gravità) proprio poche settimane fa, il 4 novembre, dopo oltre cinque anni.

Domenica 1° dicembre il cosiddetto Stato Islamico (IS) ha rivendicato l’attacco di London Bridge. Al momento non esiste alcun riscontro di un legame effettivo tra l’attentatore, simpatizzante di al-Qaida ai tempi dell’arresto nel 2010, e questa organizzazione jihadista. D’altra parte, è opportuno ricordare che le rivendicazioni dell’IS non sono sempre attendibili: in passato il gruppo armato non ha esitato ad attribuirsi la paternità di attacchi nei quali non era affatto convolto.

A proposito di questa rivendicazione, è interessante notare che, secondo alcuni esperti, il comunicato dell’IS sarebbe stato pubblicato inizialmente su una piattaforma digitale minore, TamTam, e solo pochi minuti più tardi su Telegram, il servizio di messagistica più utilizzato dagli jihadisti negli ultimi anni, oggetto di una vasta operazione di rimozione di contenuti estremistici nei giorni scorsi. Questa eventualità potrebbe segnalare l’avvio di un processo di trasferimento (almeno parziale) di canali jihadisti da Telegram verso altre piattaforme, finora meno usate.

Com’è noto, poche ore dopo l’attacco di London Bridge, un’altra aggressione all’arma bianca nel centro dell’Aia, nei Paesi Bassi, ha incrementato ulteriormente timori e allarmi; in questo caso tuttavia, secondo la polizia locale, al momento non vi sono riscontri di una matrice terroristica.

In ogni caso, rimane la preoccupazione per il rischio di un effetto di emulazione della violenza, anche in relazione a cause e motivazioni differenti. 

 

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