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Il successore di Baghdadi

Il nuovo “califfo” e l’evoluzione dello Stato islamico

Francesco Marone
21 January 2020

Lunedì 20 gennaio l’importante quotidiano britannico The Guardian ha annunciato di aver appreso in esclusiva da “rappresentanti di due servizi di intelligence” l’identità del nuovo “califfo” del cosiddetto Stato Islamico (IS), finora celata dietro il nome di battaglia di Abu Ibrahim al-Hashemi al-Qurashi.

Secondo il giornale britannico, il nuovo leader dell’organizzazione jihadista sarebbe Amir Mohammed Abdul Rahman al-Mawli al-Salbi, noto anche con il nome di battaglia di Haji Abdullah e con altri pseudonimi.

Nel complesso, le informazioni sul percorso di al-Mawli al-Salbi / Haji Abdullah all’interno dell’IS sono molto limitate. D’altra parte, negli ultimi mesi, a differenza di alcuni anni fa, l’intero organigramma dell’organizzazione jihadista appare pressoché imperscrutabile dall’esterno. Peraltro, la medesima persona nel gruppo armato può assumere una pluralità di nomi di battaglia – in un groviglio spesso inestricabile –, anche con cambiamenti in occasione del semplice passaggio da un ruolo a un altro, e tutto ciò non agevola lo studio della catena di comando.

Il Guardian, riprendendo probabilmente fonti ufficiali statunitensi, osserva che al-Mawli al-Salbi è uno dei “membri fondatori” dell’IS e combina un’esperienza sia di ideologo di primo piano sia di comandante militare. Si sarebbe tristemente segnalato, in particolare, per l’incitamento e la giustificazione dello sterminio della minoranza religiosa degli yazidi in Iraq e anche per la supervisione di operazioni terroristiche in altri paesi.   

Come il suo predecessore, al-Mawli al-Salbi è iracheno. Sarebbe nato nella cittadina di Tal Afar, non lontano da Mosul, in una famiglia di etnia turcomanna; sarebbe quindi uno dei pochi capi dell’IS a non essere arabo. Il dettaglio non è secondario, perché il nuovo “califfo”, come suggerisce il suo stesso nome ufficiale, pretende di essere un discendente del lignaggio hascemita della tribù araba dei Quraish, cui apparteneva il profeta Muhammad (Maometto). Nondimeno, secondo alcune fonti, già in passato l’IS avrebbe negato le origini turcomanne di questo militante jihadista.

Nel 2004 al-Mawli al-Salbi sarebbe stato detenuto dalle forze statunitensi nel famigerato carcere di Camp Bucca, dove avrebbe incontrato lo stesso Abu Bakr al-Baghdadi (“califfo” dal 29 giugno 2014 fino alla sua morte, il 27 ottobre 2019, nel corso del famoso raid americano).

Il 7 agosto 2019, un falso comunicato attribuito all’IS aveva sostenuto che Abu Bakr al-Baghdadi avesse nominato il proprio successore nella persona di Abdallah Qardash, altro nome solitamente associato ad al-Mawli al-Salbi – sebbene vi sia anche chi pensa che questo nome identifichi in realtà un altro esponente dell’organizzazione, persino già morto.

Poche settimane più tardi, il 21 agosto, il Dipartimento di Stato americano aveva offerto una ricompensa economica, per un valore fino a 5 milioni di dollari, per informazioni sul conto di “tre leader chiave” dell’IS, tra cui pur proprio “Amir Muhammad Sa’id Abdal-Rahman al-Mawla, noto anche come Hajji ‘Abdallah”. Nel profilo del Dipartimento di Stato, l’uomo veniva ufficialmente presentato come “un potenziale successore” del leader dell’IS.

Dopo la morte di Baghdadi, il nome di al-Mawli era nuovamente circolato nelle analisi di studiosi ed esperti. Secondo alcune fonti, al-Mawla sarebbe stato addirittura il “vice” de facto di Baghdadi dal 2010.

Come detto, l’annuncio ufficiale del successore il 31 ottobre 2019, attraverso una breve registrazione audio, non aveva svelato chi si nascondesse veramente dietro il nome ufficiale di Abu Ibrahim al-Hashemi al-Qurashi. Anche in occasione delle precedenti successioni al vertice del gruppo armato (quando era conosciuto con altre sigle), d’altra parte, il nuovo leader inizialmente non era già noto.   

Secondo le fonti di intelligence consultate dal Guardian, al-Mawli al-Salbi potrebbe ora nascondersi in Iraq, nei pressi della città di Mosul.

La rivelazione della presunta identità del “califfo” giunge in una fase in cui l’IS sta cercando di riprendersi dai gravi colpi subiti nel 2019: annus horribilis per l’organizzazione, nel corso del quale ha perso tanto il proprio “califfato”, con la caduta dell’ultima roccaforte a marzo, quanto il proprio “califfo”, con la morte, appunto, di Baghdadi a ottobre.

Diverse indicazioni suggeriscono tuttavia che l’organizzazione si stia pericolosamente rafforzando anche in Siria e Iraq, oltre che in altre regioni (come l’Africa sub-sahriana). Vi è peraltro il rischio concreto che questo tentativo di rinascita sia agevolato da condizioni inaspettatamente favorevoli sul terreno. Infatti, gli effetti destabilizzanti di eventi, pur diversi, come l’offensiva militare turca nel nord della Siria, a ottobre 2019, e più recentemente l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani, a gennaio 2020, possono infatti rappresentare opportunità preziose per il gruppo armato.

Si pensi, per esempio, alla soddisfazione con la quale l’IS ha ufficialmente salutato la morte di Soleimani. Con modalità piuttosto interessanti, in un editoriale del bollettino settimanale in arabo al-Naba, il gruppo jihadista ha presentato l’eliminazione dell’odiato esponente sciita, paradossalmente per mano del non meno inviso nemico americano, come un benefico intervento divino.

Inoltre, problemi come quello della gestione dei foreign fighters jihadisti ricordano come sviluppi salienti in quella regione possano avere conseguenze significative anche in Europa. (Per inciso, i rischi politici associati a eventuali iniziative di rimpatrio di jihadisti hanno appena trovato il loro esempio più clamoroso nel collasso del governo di coalizione norvegese, caduto proprio per insanabili divisioni interne in merito all’opportunità del ritorno in patria di una donna affiliata all’IS).

Inoltre, da una prospettiva europea, non si può dimenticare che, anche dopo il ben noto attacco terroristico di London Bridge del 29 novembre 2019, nel Vecchio Continente si sono registrati altri episodi di violenza apparentemente dettati da motivazioni di matrice jihadista (su cui le autorità stanno ancora indagando).

In questo contesto, il nuovo “califfo” deve affrontare notevoli sfide per fare in modo che il proprio gruppo armato di portata transnazionale sia ancora organizzativamente robusto, operativamente efficace, mediaticamente persuasivo e ideologicamente compatto.

Finora il volto del “califfo”, come detto, non è ancora stato ufficialmente rivelato. L’imperativo della segretezza, tanto più in una fase così delicata per il gruppo armato, ha quindi prevalso nettamente sull’esigenza di visibilità, nell’ambito di un trade-off che è tipico delle organizzazioni terroristiche.
Lo stesso Baghdadi rimase a lungo nell’oscurità dopo l’ascesa al vertice del gruppo armato (allora denominato ISI) nel 2010 e fece la sua prima apparizione pubblica soltanto quattro anni dopo, con il celebre video nella Grande moschea di Mosul del 4 luglio 2014, pochi giorni dopo la proclamazione ufficiale del “califfato” (29 giugno).

Nondimeno, nel corso del tempo, questa seconda esigenza di visibilità potrebbe diventare più pronunciata. Non è soltanto un problema pratico di pubblicità per le proprie attività (specialmente in termini di comunicazione e propaganda); può essere anche una questione fondamentale di legittimità.

Alcuni jihadisti diventati critici del progetto dell’IS hanno già contestato la nuova figura designata al vertice del gruppo armato sostenendo che secondo la tradizione islamica il califfo non potrebbe rimanere in incognito.

Sebbene l’IS abbia assunto la natura di un’organizzazione di stampo burocratico, non fondata su una vera e propria autorità personale di tipo carismatico (e priva di veri e propri culti della personalità), è altrettanto vero che, com’è stato opportunamente ricordato, il fondamentale giuramento di fedeltà (bay‘a) da parte dei seguaci va alla persona del “califfo”, non all’istituzione del “califfato”.

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