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Sahel

Mali: il presidente apre al dialogo con i jihadisti

Camillo Casola
12 February 2020

A margine del 33esimo summit dell’Unione Africana tenutosi ad Addis Abeba, il presidente maliano Ibrahim Boubacar Keïta (IBK) ha confermato l’apertura di un dialogo con i principali leader jihadisti nel paese. A dispetto dell’impatto politico e simbolico delle dichiarazioni rilasciate dalla massima autorità del Mali ai microfoni di due tra i principali media francesi, le parole di IBK hanno in realtà dato conferma di una dinamica ormai acclarata. Le raccomandazioni conclusive dell’iniziativa di “dialogo nazionale inclusivo”, tenutasi in Mali a fine 2019, avevano infatti sottolineato ampiamente la necessità di avviare un negoziato con Iyad ag Ghali e Amadou Koufa, tra le figure di maggior rilievo in seno all’organizzazione qaedista Jama'at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (JNIM, Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani) per una pacificazione dei territori del centro del paese. La novità, però, risiede nell’inedita ammissione pubblica da parte del capo di stato maliano, che ha affermato l’urgenza di “creare le condizioni affinché si possa giungere a una qualche distensione, poiché il numero di morti in Sahel diventa esponenziale ed è tempo che alcune strade siano esplorate”.

Solo poche settimane prima, l’Alto rappresentante della presidenza per le regioni del centro, Dioncounda Traoré, aveva ammesso la volontà di discutere con tutti, inclusi i miliziani jihadisti legati ad ag Ghali e Koufa, cogliendo di sorpresa i membri del governo. La reazione del ministro degli Esteri Tiebilé Dramé – che nel 2016, da oppositore del presidente Keïta, si accreditava tra i sostenitori di un negoziato con gli attori jihadisti nel paese[1] – dava il segnale della prudenza dell’esecutivo rispetto all’opportunità che tale prospettiva diventasse di dominio pubblico.

L’annuncio di IBK giunge a breve distanza dal vertice di Pau tra la Francia e i capi di stato del G5 Sahel. In quella circostanza, il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente in carica dell’organizzazione africana, il burkinabé Roch Marc Christian Kaboré, avevano esplicitamente individuato nello Stato Islamico nel Grande Sahara (Islamic State in the Greater Sahara, ISGS) l'obiettivo principale delle operazioni di contro-terrorismo nella regione, evitando ogni riferimento ad al-Qa’ida e ai suoi affiliati in Sahara-Sahel. Ciò appariva, in qualche misura, legato alle voci insistenti di un negoziato in corso con i jihadisti maliani del JNIM: le dichiarazioni pubbliche del presidente maliano sembrerebbero rafforzare l’ipotesi.

È evidente che la decisione del governo di Bamako di aprire un canale diplomatico con i leader del JNIM non avrebbe potuto essere assunta in assenza del placet francese. L’incremento delle unità dispiegate in Sahel a integrare i contingenti dell’Opération Barkhane – dai 220 uomini previsti durante il summit di Pau, ai 600 successivamente annunciati dal ministro della Difesa, Florence Parly, per un totale di 5.100 unità – ha ribadito la centralità dell’impegno francese nella regione. Rappresenta, soprattutto, una conferma indiretta della disponibilità di Parigi a lasciare via libera ai mediatori maliani rispetto alle ipotesi di dialogo con gli attori jihadisti. Se, in seguito all’intervento militare del 2013, la Francia aveva radicalmente escluso ogni prospettiva negoziale con Ansar Dine, gruppo armato salafita-jihadista a maggioranza tuareg guidato dallo stesso Iyad ag Ghali, il possibile (tacito) sostegno alla decisione del governo di Bamako di aprire un canale di dialogo con alcuni degli attori jihadisti attivi in territorio maliano e nella regione delle “tre frontiere”, al confine con Burkina Faso e Niger, segna un deciso cambio di rotta. A motivare la svolta francese, in tal senso, il riconoscimento della gravità della situazione securitaria in Sahel e un equilibrio generalmente favorevole alle forze jihadiste – come ammesso dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres – i cui attacchi diretti principalmente agli eserciti nazionali e alle popolazioni civili aumentano in numero e intensità, rendendo evidente l’insufficienza di una risposta unicamente militare e securitaria.

L’annuncio del governo di Bamako fornisce peraltro una chiave di lettura possibile delle relazioni tra i gruppi jihadisti in Sahel occidentale. Le tensioni seguite alla creazione dello Stato islamico nel Grande Sahara da parte di Adnan Abu Walid al-Sahrawi avevano inizialmente fatto da sfondo alla competizione conflittuale tra le organizzazioni qaidiste nell’area (al-Qa’ida nel Maghreb Islamico, Ansar Dine, al-Murabitun, katiba Macina) e la formazione affiliata al califfato di al-Baghdadi. Successivamente, i gruppi legati a network distinti e operanti nella stessa regione hanno adottato logiche di azione basate su dinamiche di cooperazione e sul coordinamento nella pianificazione di operazioni congiunte, secondo quanto riferito in un rapporto delle Nazioni Unite nel gennaio del 2019. Recenti sviluppi, infine, danno il segno di un nuovo mutamento di equilibri tra i gruppi armati salafiti-jihadisti nel Liptako-Gourma. In particolare, conflitti interni alla katiba Macina tra i seguaci di Koufa e alcuni miliziani dissidenti - in parte, legati alle accuse di cattiva gestione delle relazioni tra comunità locali per l'accesso alle risorse naturali e ai terreni da pascolo - avrebbero posto le basi per una scissione di parte dei combattenti, passati tra le file dell'organizzazione di al-Sahrawi. Non è chiaro se la disponibilità del predicatore e leader jihadista Koufa a negoziare con il governo maliano abbia contribuito ad alimentare gli scontri o se, al contrario, il dialogo con le autorità di Bamako sia parte di una strategia finalizzata ad acquisire una nuova centralità sullo scenario regionale, dove l’attivismo dello Stato Islamico sembra ormai oscurare la presenza dei rivali qaidisti, invadendone il raggio d’azione.  

Le difficoltà sperimentate sul piano militare dall’esercito maliano e dalle forze alleate nel contrasto ai gruppi armati e l’inefficacia di soluzioni esclusivamente securitarie in un quadro di crisi multidimensionale, in cui l’attivismo delle formazioni jihadiste si salda a ragioni di conflitto comunitario e tensioni interetniche, rende la prospettiva di un dialogo con alcuni tra gli insorti – attori politici a tutti gli effetti – un’opzione credibile per consentire allo stato di reinsediarsi nelle aree sottratte al suo controllo. Resta da capire quali possano essere le rivendicazioni degli interlocutori jihadisti e quanto lo stato maliano possa essere disposto a concedere loro.

 

[1] Intervista, Bamako, dicembre 2016.

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