Nagorno-Karabakh, nome che dice poco ai non addetti ai lavori. Eppure al centro di un conflitto a suo modo esemplificativo delle relazioni internazionali di oggi, che rischia di sfuggire di mano. Faremmo bene a interessarcene.
Territorio a maggioranza armena e cristiana, unito forzosamente dalla Russia sovietica all’Azerbaijan a maggioranza musulmana, insorge e si proclama indipendente ai primi anni ’90 dopo una guerra che provoca migliaia di vittime. Segue una tregua precaria, mediata soprattutto da Russia, Stati Uniti e Francia nel quadro del “gruppo di Minsk” (creato in ambito Osce, inclusivo anche dell’Italia), interrotte da periodiche riprese delle ostilità. Quelle più gravi in questi giorni, con un attacco azero su vasta scala e accuse reciproche di aver riacceso durevolmente lo scontro. Gli armeni – alleati di Mosca – per consolidarsi; gli azeri – spinti da Ankara – per recuperare territori.
Alcuni aspetti meritano attenzione. Il fatto, anzitutto, che ci troviamo nel cuore del Caucaso meridionale, dove si intersecano le principali rotte energetiche. L’elemento religioso poi, strumento di potere importante non solo nella regione. Le ambizioni infine di chi, come la Turchia, vuole esercitare la propria influenza ovunque glielo consentano il ripiegamento americano e le divisioni europee. E qui siamo ai confini della Russia.
In passato, com’è avvenuto, un conflitto del genere sarebbe stato congelato dalla logica dei blocchi o, negli anni successivi, dalla supremazia americana. Nel mondo di oggi – dove nessuno esercita un controllo davvero assoluto – rischia di diventare un’ennesima guerra per proxy.
La Turchia, che si servirebbe di mercenari siriani (a rischio terrorismo) per sostenere l’Azerbaijan, già si oppone alla Russia sugli scenari libico e siriano. Quest’ultima, pur riluttante a coinvolgersi in un altro conflitto e in buoni rapporti anche con gli azeri, non pare disposta tuttavia a tollerare ulteriori ingerenze nel proprio “estero vicino”.
Unite nel desiderio di escludere l’Occidente dal sud-est europeo e mediterraneo, sovraesposte entrambe militarmente, Ankara e Mosca sono in rotta di collisione negli scenari regionali, cercando di evitare sinora lo scontro diretto. Anche se la Russia non può dimenticare indefinitamente di avere verso l’Armenia un vincolo di protezione militare nell’ambito del patto che riunisce gli Stati ex sovietici
Con tutta evidenza, una mediazione si impone. Non può farla l’Osce, paralizzata dalle sue decisioni all’unanimità, che pure ne avrebbe formalmente titolo. Ha tentato l’Unione Europea, che ha tutto da perdere dall’instabilità ai propri confini, senza andare finora oltre ai meri inviti a cessare le violenze.
Restano, come capita ormai sempre più spesso, i buoni uffici dei singoli Stati. Lo ha ben compreso il presidente francese Emmanuel Macron, non insensibile alla forte lobby armena in Francia, assai attento a contrastare le ambizioni turche, desideroso di dire la sua sulle rotte energetiche e di dare un’impronta francese al Mediterraneo orientale. Ha cercato per questo, in coerenza con il suo progetto di rimettere in gioco Mosca con l’Europa, un raccordo con Vladimir Putin.
Anche l’Italia potrebbe far sentire la sua voce. Abbiamo sostanzialmente interessi analoghi e forse qualche carta in più: buoni rapporti sia con Ankara che con Mosca, legami energetici con gli azeri e relazioni storiche con le comunità cristiane armene, un ruolo rilevante con l’Eni nello sfruttamento delle risorse mediterranee, un legame transatlantico rinsaldato dalla recente visita del Segretario Pompeo. Ci conviene, inoltre, puntellare la funzione nella crisi caucasica dell’Europa con la sua presidenza tedesca, per evitare destabilizzanti fughe in avanti. E non possiamo dimenticare il ruolo cruciale di Turchia e Russia in Libia, i cui precari equilibri risentirebbero di uno scontro aperto tra di loro. Insomma, abbiamo buoni motivi per incoraggiare armeni e azeri a tornare al dialogo.
Caucaso, Libia, Mediterraneo orientale, crisi dunque che finiscono per intersecarsi, accomunate da molti dei protagonisti e che richiedono anche a noi un approccio sinergico. Nel Nagorno-Karabakh, come in Libia e sui fondali mediterranei, con un’azione politico-diplomatica e d’intelligence attenta e dinamica, che non lasci tutto il campo a chi è sempre vigile e pronto a tutela dei propri interessi. La tutela dei nostri richiede sempre più una visione ampia e un impiego coordinato degli strumenti di cui disponiamo.
Articolo originariamente pubblicato su La Repubblica dell’8 ottobre 2020