La Cina fa parte del G20 fin dalla sua fondazione nel 1999, quando gli incontri avvenivano solo tra i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali. Dal 2008, quando i vertici hanno assunto la loro forma attuale, la Cina è sempre stata una presenza rilevante nella cornice del G20. In virtù dello status di più grande economia in via di sviluppo e di secondo paese al mondo per PIL nominale, la Cina ha ricoperto un ruolo di mezzo, tra il mondo delle potenze industrializzate e quello dei paesi emergenti. In 14 anni però il peso globale e la reputazione internazionale della Cina sono enormemente mutati, e con loro anche la posizione di Pechino all’interno del G20.
Presente alla creazione
Il 2008 è stato l’anno della crisi finanziaria globale, durante la quale la comunità internazionale ha percepito la necessità di dotarsi di nuovi strumenti di governance per far fronte a una crisi che le vecchie strutture non potevano più gestire efficacemente. Nel suo primo discorso al gruppo dei venti, infatti, l’ex presidente cinese Hu Jintao annunciava che Pechino riteneva indispensabile una riforma delle istituzioni finanziarie internazionali, in modo da aumentare la rappresentanza dei paesi meno sviluppati nel processo decisionale di tali istituzioni. Di lì a poco, una serie di riforme all’interno del Fondo Monetario Internazionale portò l’istituzione a varare nel 2010 la ridistribuzione delle quote di voto interne a beneficio proprio dei paesi emergenti, tra cui la Cina.
L’impegno internazionale della Cina, in questa prima fase, era però ancora ben delimitato. Immediatamente dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale del 2008, Pechino si era opposta con forza alle speculazioni sulla necessità di istituire un “G2”, ossia un duopolio della governance economica globale a guida statunitense e cinese. Allora Hu Jintao aveva rifiutato pubblicamente l’idea, ritenendo ovviamente che – per quanto compiacente – l’ipotesi nascondesse grosse insidie per la Cina comportando essa delle responsabilità globali che un paese ancora in fase di sviluppo semplicemente non avrebbe potuto sostenere. Affermando che non sarebbe stato possibile per due soli paesi risolvere le complesse questioni della società globale, Hu indicò invece il multilateralismo come la via maestra per trovare le soluzioni adatte alle esigenze di una comunità internazionale il cui assetto era in fase di mutamento. Negli stessi mesi, stava nascendo il G20.
Nei primi anni di vita del G20, quindi, emergono due elementi che caratterizzano l’approccio cinese a tale gruppo: il primo è la visione del gruppo come una cabina di regia per condurre la riforma della governance economica globale preesistente, la seconda invece è la complessità delle aspettative reciproche che legano Pechino e il G20. Questa complessità può essere ben riassunta facendo riferimento alle quattro identità che la Cina assume nel panorama internazionale: quella di paese in via di sviluppo, afflitto ancora da importanti problemi socio-economici interni tali da richiedere un’attenzione prioritaria nonché un certo grado di libertà d’azione; quella di paese emergente, deciso a perseguire una riforma delle istituzioni internazionali in modo da rappresentare meglio i reali equilibri di potere; quella di potenza globale, investita di responsabilità globali dalle esistenti strutture di governance (come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di cui Pechino è membro permanente); e quella di quasi-superpotenza, cioè di unico paese con le capacità e le potenzialità per poter raggiungere – e magari anche sfidare – il predominio internazionale degli Stati Uniti.
2016: Il turno di Pechino
Nel 2016 è stato il turno della Cina di ospitare il G20, che venne organizzato nella città di Hangzhou, nella sviluppata provincia orientale dello Zhejiang. L’organizzazione dell’evento era stata talmente rigorosa che le autorità locali erano ricorse alla sospensione temporanea di molte attività pur di permettere all’evento di svolgersi tranquillamente: tra le varie misure, alcune centinaia di acciaierie presenti nell’area costiera erano state convinte a chiudere le proprie attività per ridurre i livelli di inquinamento durante il summit.
Misure prese forse non a caso, visto che all’epoca il vertice cinese del G20 era il primo dopo la firma dell’accordo di Parigi sul clima raggiunto nel dicembre 2015. Barack Obama e Xi Jinping avevano infatti posto particolare enfasi sulla lotta contro ai cambiamenti climatici, ratificando assieme l’accordo di Parigi il giorno prima dell’inizio del vertice di Hangzhou e inserendo nel comunicato finale l’impegno a mobilitare centinaia di miliardi di dollari a sostegno dell’economia “verde”.
Come ogni paese ospitante, la Cina ha voluto lasciare una propria impronta nell’organizzazione del forum inserendovi un tema caro alla propria postura internazionale. Alle parole “forte, sostenibile e bilanciata”, elementi chiave che annualmente vengono usati come qualifiche del rilancio della crescita economica, Pechino ha voluto affiancare il termine “inclusiva”, e infatti ad Hangzhou il numero di paesi invitati ma non membri del G20 era il più elevato da quando il vertice intergovernativo aveva iniziato a riunirsi dopo la grande crisi globale.
Sebbene l’elezione di Donald Trump fosse solo a pochi mesi di distanza, risulta oggi sorprendente andare a rivedere i temi sui quali Washington e Pechino concordavano per il rilancio economico globale. Sebbene il vertice non abbia prodotto risultati durevoli in termini di politiche globali, gli USA e la Cina non erano troppo distanti sulle ricette per sostenere l’economia mondiale: coscienti che la politica monetaria e le riforme strutturali non avrebbero potuto fornire nell’immediato quello stimolo alla domanda dell’economia globale, Washington e Pechino erano abbastanza allineate sulla necessità di una politica fiscale più attiva. Su quest’ultimo punto l’unità di intenti in linea teorica tra Washington e Pechino non è però riuscita a ottenere i risultati sperati per la ferma opposizione sul tema da parte della Germania, che avrebbe ospitato il G20 l’anno successivo: il comunicato finale, infatti, sarà molto diluito ed esprimerà solo un sostegno ad hoc e generico per misure di spesa pubblica e tagli alle tasse.
Una divisione interna?
Dal 2017 in poi però la posizione della Cina all’interno del G20 inizia a farsi più complicata. All'interno del paese, infatti, la presidenza di Xi Jinping ha assunto tratti sempre più autoritari: il punto di svolta simbolico è stato il 19esimo congresso del partito, tenutosi nell’ottobre dello stesso anno, durante il quale viene istituzionalizzata la spinta accentratrice attorno a Xi che era già emersa negli anni precedenti. In quei mesi prendeva forma il cosiddetto “pensiero di Xi Jinping sulla diplomazia”, che in sostanza riprendeva il tema della sottorappresentazione dei paesi in via di sviluppo dando però un ruolo proattivo alla Cina nella riforma della governance globale in tale direzione. Come sottolineaShino Watanabe, per Pechino il punto di riferimento per rivedere le strutture della cooperazione multilaterale rimane il G20, all’interno del quale la Cina si trova in compagnia di altri paesi emergenti coi quali condivide l’interesse a riformare le attuali istituzioni internazionali.
E in realtà, per quanto possa non apparire, è un cambio estremamente significativo quello avvenuto negli ultimi anni. Se prima il G20 veniva considerato da Pechino come un veicolo per riequilibrare la governance economica globale, ora esso potrebbe pure assumere la funzione di direttorio politico della governance mondiale assieme alle Nazioni Unite. Sarebbe questa in nuce la proposta di “G20+1” avanzata dal professore QinYaqing della China’s Foreign Affairs University, a sua volta affiliata al ministero degli affari esteri di Pechino.
Sullo scenario internazionale però la politica estera di Pechino ha iniziato seriamente a preoccupare alcuni paesi della regione. Le ritorsioni economiche, le dispute territoriali e le interferenze con la libertà di navigazione sono infatti alcune delle ragioni che hanno spinto Australia, India e Giappone ad associarsi con gli Stati Uniti nella rifondazione del Quadrilateral Security Dialogue, meglio noto come “Quad”. L'iniziativa viene additata come uno strumento di coordinamento per contenere le minacce cinesi, nonostante nessuno dei quattro paesi si sia mai espresso in tali termini. Sicuramente però questa è l’interpretazione che pare darci Zhao Lijian, portavoce del ministero degli esteri cinese, che ha messo in guardia gli Stati Uniti da non formare una cerchia anti-cinese. Il G20 non è ancora stato campo di scontro tra Cina e Quad ma, essendo tutti i paesi coinvolti membri di tale gruppo, è necessario uno sforzo collettivo per evitare che lo possa diventare.