Nel novembre 2010 la Corea del Sud è diventata il primo paese asiatico e non membro del G8 a ospitare una riunione dei leader del G20 conquistando finalmente il riconoscimento del suo nuovo status internazionale. Dai primi anni Novanta, mentre era in corso la transizione democratica iniziata nel 1987, il concetto di ‘globalizzazione’, traducibile in coreano con segyehwa a indicare l’apertura politica, culturale e sociale al mondo esterno, ha orientato Seoul verso l’allargamento del ventaglio delle relazioni diplomatiche e commerciali fino ad allora concentratesi entro la regione dell’Asia nordorientale. L’esigenza era quella di affrancare la sua politica estera dalle conseguenze della divisione della penisola coreana e di ritagliarsi un certo grado di autonomia nel panorama internazionale al di là dei vincoli imposti dall’alleanza di sicurezza con gli Stati Uniti e dai rapporti con la Corea del Nord.
È durante la presidenza di Lee Myung-bak (2008-2013) che l’ambizione di Seoul a partecipare convintamente alla leadership globale conquista i primi più significativi successi a partire dalla governance finanziaria. Mentre la Corea del Sud reggeva meglio di alcune economie avanzate l’onda d’urto della crisi del 2008-09, Lee ha fatto fronte comune con il premier australiano Kevin Rudd, spinto dalla stessa ambizione di trasformare la crisi in occasione di maggiore visibilità internazionale per il suo paese, per promuovere un coordinamento più attivo delle politiche macroeconomiche in contrapposizione a soluzioni protezionistiche. Su invito della prima amministrazione Obama l’alleato sudcoreano ha contribuito a definire l’agenda anche in altri ambiti attraverso la cosiddetta ‘hosting diplomacy’, cioè ospitando alcuni dei più importanti consessi internazionali: oltre al vertice del G20, il 4° Forum di alto livello sull’efficacia degli aiuti allo sviluppo nella città di Busan (2011) e la Conferenza internazionale sul cyberspazio a Seoul (2013). Non solo il G20 avrebbe dovuto sostituire il G7 come forum globale per le politiche di cooperazione economica grazie all’inclusione di attori emergenti e in rapido sviluppo già ritenuti di ‘rilevanza sistemica’, ma l’intensa attività di lobby degli organizzatori sudcoreani ha portato all’inserimento dello sviluppo dei paesi più poveri tra temi da trattare. Con l’obiettivo di proporre un’alternativa al cosiddetto "Washington Consensus", il "Seoul Development Consensus for Shared Growth" ha rifiutato l’esistenza di una soluzione unica da esportare e replicare in qualsiasi contesto (‘one-size fits all’) per il successo dello sviluppo. L’anno successivo il documento conclusivo del Forum di Busan ha sancito nello stesso spirito il definitivo passaggio dal concetto di efficacia degli aiuti a quello di efficacia dello sviluppo e ha riaffermato alcuni principi per il raggiungimento di obiettivi comuni quali la titolarità dei paesi partner e ne ha introdotto di nuovi quali lo sviluppo basato sui risultati, la partnership inclusiva per lo sviluppo, la trasparenza e la comune responsabilità di tutti gli attori della cooperazione.
In queste come in molte altre occasioni la principale carta che Seoul ha sfruttato per raccogliere un sostegno trasversale da parte delle Nazioni più avanzate e da quelle emergenti, e che ha portato vari rappresentati sudcoreani a scalare le istituzioni internazionali in pochi anni, è la sua storia nazionale. Tra i più poveri al mondo all’indomani della Guerra di Corea (1950-53), il reddito pro capite non superava infatti i 62 dollari, la Corea del Sud da destinataria di aiuti internazionali è diventata donatore netto entrando così nel 2010 a far parte dell’esclusivo ‘club’ dell’OCSE, il Comitato di aiuti allo sviluppo. Il suo duplice successo, economico e politico, ha incoraggiato Seoul a presentarsi come ponte tra le economie in via di sviluppo e quelle avanzate ed essere un punto di riferimento credibile anche per le nazioni in transizione verso la democrazia.
Nell’ultimo anno, il ‘modello sudcoreano’ è ritornato prepotentemente in auge. La media potenza sudcoreana è intervenuta nuovamente nel tentativo di colmare il vuoto di leadership questa volta scaturito dalla sostanziale impreparazione di molte democrazie consolidate di fronte alla pandemia, finanziando iniziative sanitarie globali e aiutando a coordinare le politiche fiscali e monetarie. L’abile risposta dell’amministrazione di Moon Jae-in nella prima fase della pandemia, contenendo il contagio senza sospendere le attività produttive, si è basata su protocolli elaborati e testati in occasione delle passate emergenze di SARS-CoV (2003) e MERS (2015) ed è stata ampiamente riconosciuta sia sul piano della salute pubblica sia su quello economico, rafforzando l'immagine di democrazia competente e attore internazionale responsabile. Ciò le è valso l’invito a partecipare al successivo vertice del G7 a guida britannica. Cavalcando il successo delle prime elezioni su scala nazionale in epoca di pandemia – ad aprile 2020 la tornata elettorale per il rinnovo dell’Assemblea nazionale ha registrato un’affluenza elevatissima (66,2%) segnale della fiducia dei cittadini, senza un successivo aumento diretto dei contagi – il presidente Moon Jae-in si è impegnato in prima persona a condividere la strategia sudcoreana affinché diventasse il riferimento internazionale per la gestione delle malattie infettive. Nonostante le critiche per le implicazioni in materia di libertà personali dell’utilizzo di tecnologie per il tracciamento, a cui ora si aggiungono quelle per i ritardi nel piano vaccinale, Moon ha cercato di utilizzare la piattaforma del G20 per capitalizzare questa potenziale fonte di soft power – il governo ha subito parlato di "K-Quarantine" richiamando la popolarità su scala planetaria del K-Pop – per evidenziare gli ambiziosi impegni internazionali anche in ambiti in cui i sudcoreani da molti anni ritengono di detenere un vantaggio rispetto ad altri, la cooperazione internazionale allo sviluppo, come già visto, e l’ambiente.
La Corea del Sud promuove da oltre un decennio la crescita verde ma senza cambiamenti strutturali al suo modello economico ancora incentrato sull’export e sui settori ad alta intensità energetica i risultati non sono stati all’altezza della retorica ufficiale. Il paese è il quinto produttore di emissioni di gas serra nell'OCSE con un mix energetico in cui nel 2018 i combustibili fossili rappresentavano ancora l'85% delle fonti di energia primaria. Inoltre il calmieramento dei prezzi dell'elettricità da parte del governo (i secondi più bassi tra i membri dell’Agenzia internazionale per l’energia) per sostenere l'ecosistema manifatturiero ha contribuito notevolmente a mantenere alti i consumi domestici e industriali, molto oltre la media OCSE. La pandemia ha messo in dubbio anche gli obiettivi della transizione energetica poiché gli attori coinvolti stanno navigando tra vincoli finanziari più rigorosi e stringenti al fine di raggiungere scopi ambiziosi. Gli effetti combinati del COVID-19 e degli shock dei prezzi delle materie prime hanno reso più urgente trovare un equilibrio tra sicurezza energetica dal lato dell'offerta, accessibilità economica e sicurezza della vita e della proprietà delle persone. La Corea del Sud sta portando avanti la parallela eliminazione del carbone e del nucleare e l’espansione delle rinnovabili (dall’attuale 15,1% al 40% entro il 2034) affidandosi al gas naturale nel breve-medio periodo per compensare le fluttuazioni nella capacità di produzione di energia elettrica, per quanto non sia una soluzione priva di impatto ambientale. Come molti altri, l’anno scorso il governo di Moon ha annunciato l’obiettivo della neutralità carbonica entro il 2050 e il suo piano di stimoli, il ‘Korean New Deal’, esprime la consapevolezza che la ripresa economica post-pandemica passi anche dalla sostenibilità ambientale assegnando, sulla carta, il 46% degli investimenti a progetti verdi. Un’opportunità che la Corea del Sud non vuole sprecare per dimostrare di essere pronta a esercitare un ruolo di guida a livello internazionale e non essere chiamata in causa solo quando si tratta di gestire le minacce di Pyongyang.