L’Unione europea sembrava essersi mossa con lentezza all’inizio del conflitto in Ucraina, con sanzioni limitate ad alcune banche (nemmeno le maggiori) e a singoli soggetti vicini a Putin. Sanzioni che si erano aggiunte a quelle già in vigore dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014. Ma dopo l’attacco russo su larga scala sul territorio ucraino, la situazione è cambiata radicalmente.
Con un’azione concertata con gli Usa e altri paesi del G7 (e non) le sanzioni economiche sono velocemente cresciute in ampiezza e intensità. Oltre al congelamento di beni di società e oligarchi russi, queste includono ora le operazioni della Banca Centrale russa che rientra così in ristrettissimo gruppo colpito dall’Ue che ricomprende Venezuela, Corea del Nord e l’Afghanistan governato dai talebani. Una mossa che rende molto più difficile per i russi utilizzare le riserve auree e in valuta estera (equivalenti a circa 650 miliardi di dollari e in parte detenute all’estero) la cui accumulazione ha subito una impennata dal 2015 e che ultimamente è stata favorita dall’aumento dei prezzi dell’energia. In questo tentativo di ‘accerchiamento finanziario’ della Russia rientra l’esclusione di alcune sue banche dal sistema SWIFT che renderà difficile, e in alcuni casi impossibile, effettuare pagamenti internazionali. Fanno eccezione quelli relativi all’energia, per impedire che la misura si traduca in una ulteriore riduzione dei flussi di gas dalla Russia proprio per l’impossibilità di procedere ai relativi pagamenti. A completare il quadro va anche ricordata la decisione di Standard & Poor’s di considerare i titoli del debito pubblico russo ‘spazzatura’. Una mossa che mette in difficoltà anche le banche russe escluse dalle sanzioni perché normalmente i titoli pubblici vengono utilizzati come garanzia per ottenere prestiti; questa garanzia dovrà ora essere integrata (se non sostituita del tutto) con altri titoli o beni. Ma le sanzioni finanziarie occidentali potrebbero colpire anche oltre il territorio russo. Banche e istituzioni finanziarie di altri paesi che non hanno adottato sanzioni (Cina e India incluse) potrebbero evitare transazioni con la Russia nel timore di ‘ritorsioni’ da parte dell’occidente (anche se al momento non siamo di fronte a vere e proprie ‘sanzioni secondarie’).
L’obiettivo delle sanzioni è colpire al cuore l’economia della Russia cui risulta sempre più difficile rifinanziare il proprio debito pubblico (che comunque si attesta su un modesto 18% del Pil) e sostenere il rublo (ad esempio attraverso il suo acquisto utilizzando valuta straniera). Il 28 febbraio il rublo è infatti crollato fino al 30% rispetto al dollaro e la borsa di Mosca non è stata nemmeno aperta per l’inevitabile tracollo cui il suo listino sarebbe andato incontro. Nel tentativo di arginare una spirale inflazionistica (con conseguenze immediatamente avvertite dai cittadini nei loro acquisti) e di sostenere la propria moneta, la Banca centrale russa in un giorno ha più che raddoppiato i tassi di interesse portandoli dal 9% circa a un vertiginoso 20%. Una mossa che andrà inevitabilmente ad impattare sui cittadini e sulle imprese russe che potranno prendere a prestito solo a tassi altissimi (tanto più che le opzioni di finanziamento dall’estero sono fortemente ridotte proprio a causa delle sanzioni).
Ma oltre alle sanzioni economiche, l’aspetto che colpisce probabilmente di più nella reazione europea riguarda le armi. Dopo decenni in cui un po' tutti ci siamo illusi che l’Ue potesse accontentarsi del suo ‘soft power’ europeo, scopriamo con Putin che in realtà l’hard power, e quindi la potenza militare, conta eccome.
A livello comunitario si attiva per la prima volta la European Peace Facility che potrà fornire armi e assistenza tecnica al governo ucraino. Pensare che l’Unione facilitasse l’acquisto e l’esportazione di armi da parte dei suoi stati membri sembrava un’ipotesi remota fino a una settimana fa. E a livello di singoli stati membri si compiono passi che possono definirsi storici. La Germania si allontana dalla sua dottrina di non inviare armi (anche se alcune eccezioni c’erano già state con Israele e Iraq) e si impegna a fornire 1000 armi anticarro e 500 missili Stinger. Il nuovo governo Scholz – e colpisce che sia un governo a guida socialdemocratica – ha anche detto che spenderà 100 miliardi in difesa e che raggiungerà l’obiettivo dei Paesi NATO di spendere il 2% del Pil per la difesa. Un impegno chiesto non solo da Trump quando era presidente, ma anche dai suoi predecessori. E un impegno che in Europa non abbiamo mai voluto assumerci in toto, mentre adesso risulta cruciale in un contesto in cui la Nato, grazie a Putin, riacquista centralità, peraltro soltanto pochi mesi dopo il disastroso ritiro dall’Afghanistan.
Colpisce anche il caso della Svezia, un paese che per la prima volta dal 1939 si impegna a inviare 5000 missili anticarro. E appena fuori i confini dell’Ue, desta enorme sorpresa anche la decisione della Svizzera, paese neutrale per antonomasia, che si impegna ad adottare sanzioni simili a quelle di Ue e Usa.
Ma oltre al campo strettamente della difesa, ci pensa Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ad alzare l’asticella in campo politico aprendo addirittura all’ipotesi dell’adesione dell’Ucraina all’Unione europea, cui ha fatto seguito una entusiastica reazione da parte di Zelensky. È dovuto poi intervenire il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, per ricordare che la questione non è così semplice e che non necessariamente ci sarebbe l’accordo all’interno dell’Ue.
Putin, dal canto suo, sembra essere stato preso un po' alla sprovvista dalla decisa reazione europea e delle altre democrazie occidentali (peraltro nel giro di pochi giorni) e in tutta risposta ha messo in massima allerta il sistema di deterrenza russo, armi nucleari incluse.
Insomma, dopo qualche iniziale esitazione, l’Unione Europea si è fatta trovare pronta. L’auspicio è che dal conflitto russo-ucraino si tragga una lezione chiara: la maggiore integrazione nel campo della sicurezza e difesa è diventata una priorità. Non basterebbe puntare a un esercito comune di 5.000 soldati (il solo Putin oggi ne contrappone quasi 200.000 in Ucraina), ma bisogna procedere con una ben più ambiziosa cooperazione che passi anche attraverso l’abbandono dell’unanimità sulle decisioni di politica estera comune e che riveda alla luce dei recenti sviluppi la Strategic Compass attualmente in corso di finalizzazione.
Per concludere è però opportuna una chiosa finale. La reazione europea è stata giusta e giustificata. Ma se si punta a un accordo con la Russia bisogna evitare provocazioni non necessarie e avere la forza e la trasparenza di capire cosa poter concedere a Mosca. Putin non sarà disposto a concludere alcun accordo se questo lo porterà a perdere la faccia nel suo paese e nel resto del mondo.