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Ripercussioni economiche

Gli effetti delle sanzioni alla Russia in Asia Centrale

Cosimo Graziani
24 March 2022

L’economia delle repubbliche dell’Asia Centrale è strettamente collegata a quella della Russia. Trent’anni di indipendenza non sono stati sufficienti a separare i sistemi economici tra di loro e i paesi della regione risentono ancora del ruolo che avevano nel sistema sovietico. Se per il Kazakistan Mosca è fondamentale per l’export delle sue risorse energetiche verso l’Europa (la vecchia rete sovietica di gasdotti e oleodotti è tutt’ora utilizzata, e passa per la Russia) per gli altri stati la dipendenza sta anche nel peso delle rimesse provenienti dalla Russia sul loro PIL. Tutte le valute locali poi, sono sensibili alla volatilità del rublo e, più in generale, di tutta l’economia russa. Non è un caso, quindi, che dopo la crisi della Crimea del 2014 tutti e cinque i paesi dell’Asia Centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan) abbiano sofferto pesanti ricadute economiche. Lo stesso sta accadendo in queste settimane dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

 

Il valore delle monete

Dopo l’inizio dell’invasione, le sanzioni imposte da Stati Uniti, Unione Europea e altri Paesi hanno riguardato i beni di esponenti politici, oligarchi e aziende russe. Inoltre, sono stati bloccati investimenti in settori strategici e l’importante accesso al circuito SWITF, che permette di compiere transizioni bancarie tra uno stato e l’altro e gli asset della Banca Centrale. Se le sanzioni hanno colpito duramente l’economia russa, il loro impatto non ha risparmiato i singoli paesi dell’Asia Centrale, che fin dai primi giorni si sono mossi internamente per evitare il tracollo.

Dal 28 febbraio in poi, il valore del rublo rispetto al dollaro si è abbassato sensibilmente, raggiungendo il punto più basso il 7 marzo, quando il valore ha toccato il minimo di 137 rubli. La conseguenza più evidente di questo tracollo in Asia Centrale è stata la perdita di valore delle valute degli stati della regione sia sul rublo che sul dollaro, assieme all’aumento dei tassi di interesse.  Per esempio, il valore del Somoni è diminuito del 35%. Nel caso del Tenge kazako, nelle prime due settimane di guerra la perdita di valore sul dollaro è stata del 20%. La stessa cosa è accaduta per il Som kirghizo e per il Som uzbeko, anche se in quest’ultimo caso la moneta si è indebolita solo nei confronti del dollaro, guadagnando nei confronti del rublo il 45%.

Tra i paesi centroasiatici, quello che ha reagito più rapidamente alle sanzioni e alla crisi economica innescata dalla guerra è stato il Kazakistan che ha creato un comitato anticrisi per cercare di coordinare le misure da attuare per bloccare la crisi economica lavorando su tre obiettivi: tenere bassa l’inflazione, mantenere il valore della valuta stabile e stimolare il mercato del lavoro attraverso la creazione di nuova occupazione e sostegno alle imprese. Se per le misure riguardanti il mercato del lavoro ci vorrà un tempo di attuazione più lungo, per l’inflazione e il valore della moneta il governo attraverso la Banca Nazionale ha messo in campo delle misure monetarie espansive e ha bloccato le fuoriuscite di contanti superiori ai diecimila dollari. In totale, le misure attuate hanno superato gli ottocento milioni di dollari. Anche Tajikistan e Kirghizistan hanno creato dei piani anticrisi, sebbene in ritardo rispetto al Kazakistan e di minore intensità. Il paradosso in questo caso è che questi due paesi saranno più esposti alle conseguenze delle sanzioni a causa delle rimesse provenienti dalla Russia e, nel caso del Tajikistan, a per la chiusura di impianti industriali nel paese, che andranno ad incidere sulla disoccupazione.  

 

Il problema delle rimesse

Le rimesse sono uno dei pilastri delle economie di Tajikistan, Kirghizistan e in maniera minore di quella dell’Uzbekistan. Secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale, il quantitativo di soldi inviati dai lavoratori stagionali in Russia verso i propri paesi si ridurrà sensibilmente. Ovviamente, per tutti e tre gli stati le rimesse provengono da più paesi, ma quelle provenienti dalla Russia rappresentano la fetta più importante.  Basti pensare che dal gennaio al settembre del 2021 le rimesse provenienti dalla Russia erano l’83% di quelle che arrivavano in Kirghizistan e più del 50% di quelle che arrivavano in Tajikistan e Uzbekistan. Il loro peso sul totale del PIL era enorme: per il Kirghizistan nel 2020 le rimesse hanno contribuito quasi ad un terzo del PIL, mentre per il Tajikistan quasi il 27% e per l’Uzbekistan quasi il 12%. Per quest’anno le previsioni del flusso delle rimesse erano positive e davano una crescita che oscillava tra il 2 e il 3%, mentre dopo l’invasione dell’Ucraina sono state riviste in negativo: -33% per il Kirghizistan, -22% per il Tajikistan e -21% per l’Uzbekistan. La diminuzione del valore del rublo ha fatto diminuire anche il valore delle rimesse. Nel caso del Tajikistan il tutto è aggravato dalla decisione del governo, presa nel 2019, di trattenere una commissione su tutte le rimesse che arrivano dal paese. Ciò significa, che oltre alle famiglie, anche il governo guadagnava su questi flussi di denaro. Questo, oltre alla svalutazione del Som e alla diminuzione dei flussi commerciali con la Russia, potrebbe creare una seria crisi economica e sociale. Effetti analoghi si avranno anche sul Kirghizistan a sull’Uzbekistan, sebbene quest’ultimo potrebbe trovare qualche via d’uscita per sopperire al problema grazie alla differenziazione degli investimenti attuata dal governo di Mirziyoyev dal 2016 in poi.

 

Gli aspetti sociali e la questione alimentare

Per tutti i paesi della regione il futuro riserva molte incertezze. Le sanzioni e la crisi possono modificare il mercato del lavoro russo, restringendolo per i lavoratori provenienti dall’Asia Centrale a favore dei cittadini russi e dei migranti provenienti dalle regioni separatiste, che dovranno essere assorbiti dal sistema economico di Mosca. La situazione potrebbe dunque avere risvolti sociali significativi nei prossimi anni e obbligare i regimi locali a far fronte a un nuovo contesto di instabilità.

L’ultimo aspetto da considerare tra gli effetti delle sanzioni e della crisi sono le e forniture di derrate alimentari. La Russia ha infatti bloccato le esportazioni di grano verso i paesi dell’Unione Eurasiatica e degli altri partner ed ha tolto le restrizioni per l’import di alcuni prodotti, tra cui anche generi alimentari provenienti dalla stessa regione.

Lo stop russo comporta una penuria di generi alimentari, tanto che i governi della regione hanno fatto dichiarazioni per assicurare alla popolazione che esistono scorte a sufficienza. Il problema riguarda in maniera particolare l’import del grano in Kazakistan e in Kirghizistan, e l’import di zucchero in Uzbekistan e di nuovo Kirghizistan. Il Ministro dell’Agricoltura kazako ha assicurato che nei mesi scorsi sono stati raccolti sei milioni e mezzo di tonnellate di grano, sufficienti ad arrivare alla prossima raccolta autunnale, bisognerà vedere se anche quest’anno si ripresenterà una situazione analoga allo scorso anno e in che intensità, considerato che il clima in Asia Centrale sta diventando sempre più caldo e si prevede una progressiva diminuzione dei raccolti da qui al 2050. Nel caso ci fosse bisogno di intervenire sul mercato delle materie prime per acquistare altri beni come il grano, il problema che il Kazakistan e gli altri paesi dell’Asia Centrale dovranno affrontare è anche un massiccio aumento dei prezzi causati dalla guerra, uno sforzo non facile se abbinato agli effetti delle sanzioni sulle loro economie.  

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