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DATAGLOBE

Crisi del gas: quella special relationship tra Europa e USA

Matteo Villa
23 September 2022

Inizia l’autunno, inizia la corsa contro il tempo per trovare ulteriori alternative al gas russo. Una corsa che è invero cominciata ormai un anno fa, quando è parso progressivamente chiaro che Gazprom aveva volontariamente iniziato a ridurre i volumi di gas immessi sul mercato europeo. Ma fino a tutto il 2021 gli unici volumi che Gazprom aveva rimosso erano quelli venduti sul mercato del gas spot, cioè a pronti e slegato a contratti di lungo periodo. Per evitare penali e, probabilmente, anche di insospettire troppo gli acquirenti europei.

Oggi invece il taglio è ben più consistente: l’80% del gas che arrivava in Europa dalla Russia prima della crisi è scomparso, fatto sparire da Gazprom che non teme più ritorsioni legali o politiche, e usa l’arma del gas per mettere l’Europa il più possibile spalle al muro, pur continuando a incamerare oltre il doppio delle entrate rispetto al periodo pre-crisi grazie a prezzi decuplicati. Per l’Unione europea significa dover trovare un sostituto o dover rinunciare a 120 miliardi di metri cubi all’anno (Gmc/a) di gas naturale. Una cifra enorme, se si considera che nel 2021 l’UE aveva consumato poco meno di 400 Gmc/a: si tratta dunque del 30% di tutto il gas consumato dai Paesi dell’Unione.

 

L’ingresso in scena del GNL americano

Quest’anno a spiazzare gran parte dell’ammanco di gas provocato dalla Russia ci ha pensato il GNL: il gas naturale liquefatto che arriva da paesi troppo lontani per portarcelo via tubo. La rivincita del GNL, per anni “pecora nera” d’Europa con rigassificatori europei utilizzati al 20-25% della loro capacità nominale, avviene perché i due maggiori fornitori europei dopo la Russia, cioè la Norvegia e l’Algeria, non sono in grado nel breve periodo di aumentare in maniera significativa le loro esportazioni. Al contrario, i produttori di shale gas statunitense stavano solo aspettando un’alternativa così profittevole come prezzi del gas in Europa decuplicati rispetto ai normali tempi pre-crisi. Alternativa che, come secondo effetto, ha quello di rimuovere una quantità di gas in eccesso dal mercato statunitense, facendo lievitare i prezzi del gas naturale anche sul mercato americano (quotato a Henry Hub).

Il grafico qui sopra mostra la situazione, ma vista dal punto di vista americano. E ciò che mostra è davvero eccezionale: nel corso degli ultimi dodici mesi, i produttori statunitensi hanno inviato in Europa oltre 70 Gmc di gas. Sufficienti a compensare, da soli, oltre la metà dell’ammanco russo che si andava ampliando nel corso degli stessi mesi, e oggi ancora nettamente in testa tra i Paesi che più sono riusciti a inviare “nuovo gas” in direzione Europa nel corso di questa crisi. Di fatto, si tratta dell’unico aumento davvero significativo da parte di un singolo fornitore, che quest’anno ha fornito all’Europa oltre la metà del GNL importato (51%), seguito solo a grande distanza dal Qatar (15%) o dalla somma di tutti i Paesi africani (17%).

Insomma, gli Stati Uniti sono l’unico Paese a essere riuscito a fornire quantità significative di nuovo gas all’Europa, più che raddoppiando i volumi esportati rispetto a quelli dell’anno scorso (da 29 a circa 70 Gmc/a, appunto). Anche in ragione di ciò, l’Europa è diventata di gran lungo il primo mercato di sbocco per il gas americano, passando da una quota del 29% delle esportazioni USA nel 2021 a una del 66% oggi.

 

Buone azioni a stelle strisce?

Insomma, siamo stati “salvati” dal gas statunitense? In un certo senso sì: se non fossero esistite le esportazioni di shale, sarebbe stato praticamente impossibile far fronte a un ammanco così grande di gas russo. Allo stesso tempo, e malgrado le tante dichiarazioni pubbliche di questi mesi, è indubbio che ciò che sta succedendo nel mercato del GNL non sia un aiuto disinteressato da parte di un’amministrazione americana che sa di stare combattendo una guerra in prima linea, ma una semplice reazione alle forze di mercato. I produttori di GNL americano stanno infatti al momento prendendo due piccioni con una fava, potendo rispondere all’incombente crisi di liquidità e finanziamenti, che li vessava da anni, tramite vendite gas all’Europa a prezzi decupli rispetto a inizio crisi, e per conseguenza diretta potendo anche approfittare di un mercato del gas americano in cui i prezzi sono a loro volta quadruplicati proprio a causa della domanda europea.

A non sorridere è però, forse, la stessa amministrazione USA che fa proclami e promesse. La promessa dello scorso marzo da parte del Presidente Biden che l’Europa avrebbe ricevuto 15 Gmc in più dagli USA entro fine anno è stata più che doppiata: siamo quasi al triplo rispetto agli impegni statunitensi (+41 Gmc, appunto). Ma quando solo pochi mesi dopo Biden ha accolto Ursula von der Leyen a giugno, e si è vociferato di ulteriori impegni per 20 Gmc l’anno, Washington era nettamente più fredda. Il motivo? Il Presidente sa bene che ogni goccia di gas in più che arriva in Europa è cruciale per salvare il continente da un inverno al freddo. Ma sa anche che ogni molecola di gas liquido che finisce in Europa è una molecola di gas sottratta agli USA, e che questo fa lievitare i prezzi del gas anche negli Stati Uniti. In un anno e mezzo, il benchmark Henry Hub è salito da 2$/MBtu a oltre 8. Valori che non si vedevano dal 2008, e che la rivoluzione shale aveva promesso di non riproporre per molto altro tempo ancora.

È chiaro che, per Biden, arrivare alle elezioni di mid-term con il petrolio sui 90$ al barile e un costo del gas quadruplicato rispetto a inizio 2021 non siano una cosa bella. Così aumentano anche i prezzi dell’elettricità. Ma, d’altronde, si tratta di una lezione che arriva proprio dai Paesi anglosassoni: è il mercato, bellezza.

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