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Commentary

Turchia: il gioco d’azzardo del Sultano

Valeria Talbot
28 September 2022

Diplomazia e mediazione, sono due parole chiave del discorso del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan all’Assemblea generale delle Nazioni Unite di settembre. Se il riferimento è innanzitutto al conflitto in corso in Ucraina, esse caratterizzano bene anche il nuovo corso intrapreso dalla politica estera turca. Da mesi il leader turco è impegnato in prima persona in una difficile mediazione tra Russia e Ucraina, con grandi sforzi e un primo risultato concreto realizzato al fianco dell’ONU: lo sblocco, lo scorso luglio, dell’export di grano dai porti ucraini attraverso il Mar Nero. Più di recente, la Turchia ha avuto anche un ruolo nel facilitare lo scambio di prigionieri tra Kiev e Mosca. Erdoğan è infatti tra i pochi a potere vantare un rapporto diretto sia con Volodymyr Zelensky sia, soprattutto, con Vladimir Putin, che negli scorsi mesi ha incontrato in diverse occasioni, da ultimo al vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO) svoltosi in Uzbekistan a metà settembre.

L’intensificarsi dei contatti con la Russia, in una relazione che rimane complessa, non ha tuttavia impedito a Erdoğan di ribadire la posizione turca a sostegno dell’integrità territoriale dell’Ucraina e della restituzione al governo di Kiev dei territori controllati dai russi, compresa la Crimea, la cui annessione alla Russia nel 2014 non è riconosciuta dal governo di Ankara.

 

La diversificazione dei rapporti internazionali

Il delicato bilanciamento che la Turchia sta cercando di tenere nell’attuale scenario di crisi non riguarda solo il suo rapporto con Mosca e Kiev, ma anche le relazioni con gli alleati occidentali. Seppur apprezzando gli sforzi diplomatici turchi, Washington e le capitali europee guardano con preoccupazione agli stretti legami di Ankara con Mosca e soprattutto all’eventualità che la Turchia possa in qualche modo favorire un allentamento delle sanzioni occidentali – cui Ankara non aderisce – nei confronti dell’economia russa. Il significativo incremento dell’export turco verso la Russia, che da maggio a luglio è aumentato del 46% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente con un picco del 75% nel solo mese di luglio, è stato visto come un segnale in questo senso. Anche l’apertura del presidente turco, nei confronti dell’adozione del sistema di pagamenti russo Mir da parte di banche turche – successivamente da alcune sospesa per timore di sanzioni occidentali – è stata guardata nelle capitali occidentali come un altro segnale nella stessa direzione.

Del resto, non è una novità che la Turchia giochi da tempo su più tavoli a livello internazionale. Proprio la diversificazione delle relazioni esterne è infatti uno dei tratti principali della politica estera turca negli ultimi vent’anni, da quando cioè il Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) di Erdoğan è al governo. Una diversificazione che, partendo dal vicinato mediorientale e caucasico, l’ha portata negli anni ad ampliare il raggio della propria proiezione esterna, dal continente africano all’Asia Centrale e alla Cina, sulla base di interessi strategici, economici ed energetici. Particolare interesse è stato mostrato da Ankara nei confronti sia della Cina e degli investimenti cinesi nell’ambito della Belt and Road Initiative sia della SCO, di cui è partner di dialogo dal 2012 con l’aspirazione a diventarne membro.

Se nella retorica ufficiale del governo turco la membership della SCO è stata spesso presentata come una possibile alternativa di fronte all’impasse dei negoziati di adesione all’Unione europea, nei fatti però l’appartenenza all’organizzazione economica e di sicurezza a guida sino-russa mal si concilia con lo status di membro della NATO della Turchia. E ciò ancor di più oggi alla luce delle tensioni tra Occidente e Russia e della crescente competizione tra Stati Uniti e Cina. Ma ciò non sembra preoccupare Erdoğan. Dopo il vertice SCO di metà settembre, a cui partecipava per la prima volta, il leader turco ha infatti dichiarato che la ricerca di alternative è del tutto legittima per la Turchia che si definisce potenza globale, al di là di appartenenze di campo.

 

Nuovo corso: amici di Israele e Arabia Saudita

L’Assemblea generale dell’ONU è stata per il leader turco anche l’occasione per rimarcare, in una cornice internazionale, il nuovo corso diplomatico della politica estera turca, che nell’ultimo anno ha posto le basi per il riavvicinamento di Ankara a diversi rivali regionali. Se indubbiamente ancora molto rimane da fare, la Turchia può ad oggi vantare la normalizzazione delle relazioni con gli Emirati Arabi Uniti e Israele. Proprio New York ha fatto da sfondo al primo incontro di Erdoğan con il premier israeliano, Yair Lapid, il primo a questo livello dal 2008. Ma la Turchia può anche vantare l’inizio di “una nuova era” di cooperazione con l’Arabia Saudita, inaugurata dallo scambio di visite della scorsa primavera tra il presidente turco e il principe ereditario Mohammed bin Salman, dopo le tensioni seguite all’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul a ottobre 2018. 

La ridefinizione dell’approccio di politica estera della Turchia, dopo anni di politiche muscolari e accesa competizione sul piano regionale, muove tanto da ragioni di carattere economico quanto dalla necessità di tenere il passo con le trasformazioni del contesto mediorientale. Ma per Erdoğan i successi in politica estera assumono importanza anche nell’ottica di accrescere i propri consensi sul piano interno in vista delle prossime elezioni legislative e presidenziali, previste entro giugno 2023.

 

Verso le elezioni: si scaldano i motori

La Turchia è già da tempo in clima pre-elettorale. Sul fronte del governo, tiene l’alleanza tra l’Akp e il Partito del Movimento nazionalista (Mhp) di Devlet Bahçeli. Dal canto suo, il composito ed eterogeneo fronte delle opposizioni ha costituito una piattaforma politica comune di cui fanno parte il Partito Repubblicano del Popolo (Chp), il Partito Buono (IP), il Partito della Felicità e il Partito Democratico (DP) insieme al Partito Futuro dell’ex primo ministro Ahmet Davutoğlu e il Partito Democrazia e Progresso (Deva) dell’ex ministro delle Finanze Ali Babacan, due formazioni politiche nate da una scissione con l’Akp. Punto principale del manifesto programmatico del cosiddetto “Tavolo dei sei” è il ritorno al sistema parlamentare in vigore prima della riforma presidenziale del 2018 fortemente voluta da Erdoğan con il sostegno del Mhp.

In questa fase, l’interrogativo principale riguarda il nome dello sfidante del principale fronte di opposizione al presidente turco. Il leader del Chp Kemal Kılıçdaroğlu sarebbe tra i più accreditati, sebbene non goda di ampio sostegno nel Paese. Maggiori chances, secondo i sondaggi, avrebbero invece altri due esponenti in vista del Chp: Murat Yavaş ed Ekrem İmamoğlu. I primi cittadini di Ankara e Istanbul hanno infatti ottenuto importanti vittorie contro i candidati dell’Akp nelle amministrative del 2019 – determinando, dopo decenni, un cambio di direzione nella gestione delle due principali città del Paese – e avrebbero maggiori possibilità di ampliare il bacino di consenso elettorale. Se infatti Yavaş, ex membro del Mhp, gode delle simpatie dei nazionalisti, İmamoğlu ha un sostegno trasversale e potrebbe anche raccogliere i consensi della componente curda, come nel 2019. Già da tempo i sondaggi dicono che difficilmente Erdoğan riuscirà a ottenere una vittoria al primo turno, considerato che il gradimento per il suo operato si attesterebbe al 41,5%, a meno che nei prossimi mesi non vi siano significativi cambiamenti che facciano alzare l’asticella dei consensi in suo favore.

 

Economia sempre più in difficoltà

Il difficile andamento dell’economia, l’inflazione galoppante e il deprezzamento della valuta nazionale continuano a pesare sulla popolarità del presidente. I dati ufficiali dell’Istituto di statistica turco riportano un’inflazione all’80,21% nel mese di agosto ma, secondo il gruppo indipendente l’ENAgrup, l’aumento reale dei prezzi sarebbe ben più alto, al 181,37%. Nonostante la continua crescita dell’inflazione, da agosto a oggi la Banca centrale turca ha operato – in controtendenza con quanto sta avvenendo in altri Paesi – ben due riduzioni del tasso di interesse che dal 14% è stato tagliato al 12%, in linea con la non convenzionale politica monetaria del presidente. Erdoğan è infatti fortemente contrario all’incremento dei tassi ed è al contempo sostenitore di politiche espansive, che nel 2021 hanno fatto registrare una crescita del Pil dell’11%. Il secondo trimestre del 2022 ha segnato una crescita economica al 7,6%, di poco superiore al dato dei primi tre mesi dell’anno (7,3%). Resta tuttavia da vedere se la strategia della crescita a tutti i costi, unita al rinnovato slancio diplomatico, premierà il presidente da qui alle prossime elezioni.

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