Sergio Galasso, ex studente del Master in International Cooperation, in Tunisia per promuovere la sua nuova associazione “Itinerari Paralleli” è riuscito ad ottenere un’intervista con Hassan Ben Brik, il responsabile della predicazione del gruppo salafita tunisino Ansar ash-Asharia. A seguito dell’intervista Sergio ha scritto per Limes l’articolo ‘Non crediamo nella democrazia, ma senza appoggio del popolo niente jihad’.
Sergio, come sei riuscito ad avvicinare Hassan Ben Brik?
In Tunisia uno dei lavori più importanti che sto svolgendo con l’associazione “Itinerari Paralleli” in questa fase di start-up è quella di muovermi sul territorio ed incontrare una vasta gamma di persone, gruppi, associazioni ed istituzioni. Questo mi ha dato la possibilità di conoscere il fratello di Hassan, Karim e attraverso di lui ho stabilito il contatto per l’intervista. Ho dovuto combattere una certa riluttanza iniziale, visto che la stampa internazionale non gode di ottima fama. Molte interviste infatti vengono tagliate, modificate e reinterpretate. L’informazione soffre di sensazionalismo e questo fa perdere credibilità a chi cerca di capirci qualcosa. Per fortuna sono riuscito a far passare il messaggio che il mio intento primario era quello di avere un confronto e poter approfondire alcuni temi che mi erano ancora poco chiari. L’onestà intellettuale delle mie intenzioni e l’amicizia con Karim mi hanno ripagato.
Come si è svolta l’intervista?
L’incontro è avvenuto qualche chilometro fuori Tunisi, in un appartamento. L’atmosfera era inizialmente un po’ tesa, ma nel reciproco rispetto e il colloquio è stato sereno ed approfondito. Siamo subito stati accusati di essere membri dei servizi segreti, ma la cosa ci ha fatto più che altro sorridere e non preoccupare. L’intervista è servita non solo per approfondire i temi dell’attualità tunisina e del mondo arabo ma soprattutto per conoscere a fondo le persone ed il paese in cui sto cercando di lavorare. In quest’intervista ho trovato utile coinvolgere un amico, Fabio Merone, uno dei maggiori esperti che io conosca sull’attualità socio-politica della regione, con cui volevo condividere questa esperienza. All’intervista ha partecipato anche una giovane giornalista inglese, Louisa Loveluck, che stava alle calcagna di Fabio per capirci qualcosa su quello che stava succedendo in Tunisia in quei giorni di caos dopo l’assalto all’ambasciata. Oltre ad aver rappresentato un motivo di frizione con Hassan in quanto donna e per di più inglese, averle fatto da interprete durante l’intervista, aver fatto da portavoce per le sue domande in quanto non poteva rivolgersi direttamente ad Hassan, alla fine ha usato l’intervista per un articolo su Foreign Policy che avremmo dovuto scrivere a quattro mani.
Cosa ti ha colpito di Hassan Ben Brik? Perché?
Credo che l’aspetto più incredibile che posso testimoniare non è tanto racchiuso in Hassan. Lui è un militante salafita, istruito, con lunghe esperienze di Jihad in questi anni di conflitto in medio oriente. Ma al di là delle sue convinzioni e del suo ruolo nel movimento Ansar ash-Asharia, è un ragazzo con interessi che vanno dal calcio alla letteratura. Sgombrerei il campo dall’iconografia che vuole i leader islamici chiusi in grotte, con i mitra in secondo piano a fare proclami per la guerra santa. Non vuol essere un giudizio di valore, ma una constatazione dei fatti. Dobbiamo aggiornare i paradigmi interpretativi con cui leggiamo la realtà dell’islamismo radicale. Ecco perché preferisco citare la famiglia di Hassan Ben Brik, che rappresenta in pieno la complessità sociologica e politica della Tunisia di oggi. Quattro fratelli, il primo ex-cecchino delle guardie scelte di Ben Ali, la seconda truccatrice nella TV di stato tunisina, svelata e non ancora sposata. Infine Karim “Minissi”, il mio contatto, che fa il rapper e vive con la testa nella musica e nella cultura sub-urbana di Tunisi. Una famiglia in cui solo Hassan ha scelto la strada dell’integralismo, del Jihad e dell’impegno politico. Sua moglie indossa il Burka e il suo primogenito porta un nome pesante: Osama. Un quadro che confonde prima di farci concludere che la Tunisia è molto di più di un paese musulmano, molto più di un paese in transizione verso la democrazia, molto più di un paese in cui si riscoprono i diritti civili. La Tunisia racchiude tutta la complessità di uno stato post-moderno, in cui istituzioni liberali, democrazia, Islam ed economia di mercato hanno iniziato a confrontarsi veramente solo con il dischiudersi della rivoluzione, ma che a tutt’oggi non hanno ancora trovato una sintesi.
Com’è la situazione in Tunisia a quasi due anni di distanza dall’inizio della rivoluzione dei gelsomini?
Ricordo che il ministro degli esteri tunisino Rafik Abdessalem, qualche mese fa a Roma descrisse la Tunisia come un paese multidimensionale. Disse “noi dobbiamo guardare al mondo arabo, perché siamo musulmani; dobbiamo guardare all’Europa, perché siamo un paese del Mediterraneo; ma non possiamo dimenticarci dell’Africa, perché siamo africani”. Ecco forse il ministro ha guardato ovunque, ma si è dimenticato di guardare i tunisini che da oltre due anni chiedono riforme vere, chiedono opportunità e sono stanchi delle caste politiche e della corruzione. La transizione ha aperto i canali di YouTube, ma non riesce a produrre reddito, né ha ancora avuto la capacità di rinnovare la classe dirigente. Aspettare è d’obbligo viste le sfide che attendono il paese; la promulgazione della nuova costituzione e le prime elezioni legislative sono alle porte e ci daranno nuovi indizi sul futuro. Ma la pancia del paese ha già aspettato tanto, l’odore dei gelsomini sta svanendo e si riaffaccia la disillusione e la rabbia. Si vedono in giro i primi nostalgici per la serie “quando c’era Lui i treni arrivavano in orario e si poteva lasciare la bici fuori la porta”. Chi saprà interpretare al meglio questa frustrazione per raccogliere consensi e costruire una proposta politica non sappiamo ancora. Saranno i progressisti che si stanno dando ancora pacche sulle spalle per aver messo in fuga Ben Alì a colpi di “Dégagé”, o magari la vecchia guardia dell’Islam moderato di al-Nahda che vive ancora gli spettri degli anni trascorsi tra il carcere e l’esilio e ora che è maggioranza non riesce a dimostrare concretezza e solidità di governo? Un altro scenario possibile è che per la prossima intervista, Hassan ben Brik lo incontri non in piccolo appartamento alle porte di Tunisi, ma dietro una bella scrivania in Av. Bourguiba, nel ministero degli interni. Nessuno di questi scenari mi preoccupa, perché sono sicuro, per come ho conosciuto il popolo tunisino in questi mesi, che saranno loro a decidere del loro destino e a prendersi le responsabilità per le loro scelte. Questo sempre se l’occidente sarà disposto a rispettarle.
Sergio Galasso, nato a Napoli nel 1983, si è laureato in Relazioni Internazionali e Diplomatiche presso l’Orientale di Napoli e in seguito, ha conseguito il Master in Cooperazione Internazionale. Nel 2011 ha fondato insieme ad alcuni amici l’associazione “Itinerari Paralleli” per svolgere attività di Turismo sociale e cooperazione internazionale.