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Commentary

L’attacco in Turchia: l’ombra del passato, le incognite del futuro

Lorenzo Fruganti
18 November 2022

Il 13 novembre scorso l’esplosione di una bomba nel centro di Istanbul ha provocato la morte di sei persone e più di ottanta feriti, riportando il paese indietro di qualche anno, ovvero alla lunga stagione di attentati terroristici del 2015-2017, culminati nella carneficina di Ortakoy. Era infatti dalla notte di Capodanno del 2017, quando un uomo armato aveva aperto il fuoco nel nightclub Reina causando 39 vittime, che la città simbolo della Turchia non veniva colpita da un attentato. In quell’occasione, fu lo Stato Islamico (IS) a rivendicare ufficialmente la strage. Ad oggi, invece, l’attacco non è stato rivendicato, ma dalle prime ricostruzioni delle autorità turche le responsabilità sono ricadute sul Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), una formazione politica e paramilitare indipendentista curda attiva dal 1978 nel sud-est della Turchia e nella zona del Kurdistan iracheno. Lo scontro fra il governo di Ankara e il PKK, che sia la Turchia sia l’Unione Europea e gli Stati Unti classificano come un’organizzazione terroristica, si è riacceso in maniera violenta dalla metà del 2015, al termine di una tregua durata due anni e mezzo.

Se sulla matrice dell’attentato molti aspetti rimangono ancora da chiarire, l’episodio di violenza riaccende i riflettori su una serie di questioni aperte in Turchia, riguardanti tanto gli equilibri interni – il paese si appresta ad andare al voto nel 2023 – quanto i rapporti di Ankara con gli attori esterni coinvolti nelle vicende mediorientali (soprattutto in Siria) o legati a doppio filo agli interessi turchi nell’area.


Ankara accusa il PKK (che nega) e critica gli Stati Uniti. E la pista Stato Islamico?

Ad oggi, le indagini della polizia hanno portato all’arresto di svariate decine di persone, fra cui Ahlam Albashir. Dalle ultime ricostruzioni, la donna, di nazionalità siriana, avrebbe piazzato e fatto detonare l’ordigno a base di tritolo in viale Istiklal, cuore commerciale di Istanbul. Durante l’interrogatorio, la presunta responsabile avrebbe confessato di essere stata addestrata dal PKK e dalle Unità di Protezione popolare (YPG). Considerate da molti in Turchia come un’estensione siriana del PKK, le milizie curde YPG costituiscono il gruppo armato più numeroso all’interno della coalizione delle Forze Democratiche Siriane (SDF), che controllano gran parte della regione nord-orientale della Siria. Dalle dichiarazioni del ministro dell’Interno turco Suleyman Soylu è emerso che l’ordine di attaccare sarebbe arrivato da Kobane, la città situata nella parte settentrionale della Siria al confine con la Turchia, dove ha sede il quartier generale delle YPG.

In una dichiarazione resa pubblica sul proprio sito, il PKK ha però smentito ogni coinvolgimento nell’attentato del 13 novembre, ribadendo la propria volontà di “costruire un futuro comune, democratico, libero ed equo con la società turca”, e precisando che i civili non sono il bersaglio delle sue operazioni[1]. Va osservato che il modus operandi dell’attentato non rientra nel repertorio comune degli attacchi perpetrati dal PKK: tradizionalmente il gruppo non colpisce civili, concentrandosi piuttosto sulle forze militari e di sicurezza turche (lo stesso vale per le YPG in Siria). Tuttavia, dopo il luglio del 2015, con la fine del cessate il fuoco unilaterale dichiarato dal PKK due anni e mezzo prima e la ripresa dello scontro con lo stato turco, vi sono stati, almeno in due occasioni, attacchi di matrice curda contro civili inermi. Si tratta dell’autobomba in prossimità del parco di Güven nel cuore di Ankara (13 marzo 2016, 37 vittime tutte civili), e delle due esplosioni vicino allo stadio del Beşiktaş a Istanbul (10 dicembre 2016, 38 morti di cui 31 poliziotti), rivendicate dai Falchi per la Libertà del Kurdistan (TAK), che il governo considera un’ala radicale del PKK, ma i cui legami con l’organizzazione di Abdullah Öcalan sono tutt’altro che trasparenti.

Sebbene la pista del PKK sia quella più accreditata dal governo, non sono mancate le ipotesi circa una possibile matrice islamista dell’attentato. Nel periodo 2015-2017 allo Stato Islamico sono stati attribuiti più di dieci attacchi in territorio turco (di cui cinque a Istanbul), diretti contro forze di sicurezza, movimenti curdi e turisti stranieri. L’unico rivendicato ufficialmente da IS è però quello del 1° gennaio 2017 nel quartiere di Ortakoy. L’ondata di attentati terroristici ad opera della formazione jihadista era avvenuta in conseguenza dell’ingresso della Turchia nella Coalizione globale a guida statunitense contro lo Stato Islamico nel luglio del 2015, dopo una fase di ambiguità nei confronti del sedicente califfato. Nell’ambito del contrasto a IS, condotto negli anni in maniera serrata dalle autorità di Ankara, lo scorso maggio, i reparti speciali dell’antiterrorismo turchi, con il sostegno dell’intelligence, hanno arrestato a Istanbul Bashar Hattab Ghazal al-Sumaidai, un importante esponente iracheno del gruppo, poi consegnato alle autorità giudiziarie del paese a settembre. La conferma ufficiale dell’arresto è arrivata nello stesso mese dal presidente turco Recep Tayyp Erdoğan. I media nazionali turchi hanno riferito che al-Sumaidai, identificato da un rapporto del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di luglio come “uno degli alti dirigenti dell’organizzazione”, potrebbe essere l’uomo noto come Abu Hasan al-Hashimi al-Qurashi, ovvero il nuovo leader dello Stato Islamico.

 

Con la Siria sullo sfondo, l’attentato mette a nudo le relazioni altalenanti fra Ankara e Washington

Alcune ore dopo l’attentato, il ministro dell’Interno Suleyman Soylu ha respinto i messaggi di condoglianze arrivati dagli Stati Uniti affermando, con toni implicitamente accusatori, che la tempestività della Casa Bianca nell’esprimere il proprio cordoglio assomiglia a quella dell’“assassino che arriva per primo sulla scena del delitto”. Il portavoce della presidenza turca, Fahrettin Altun, si è unito alle critiche di Soylu sottolineando come quanto accaduto rischia di compromettere i rapporti di amicizia fra Ankara e alcuni paesi che “offrono sostegno diretto o indiretto ai gruppi terroristici”. Tuttavia, al termine di un incontro fra Erdoğan e il suo omologo americano Joe Biden a margine del recente G20 in Indonesia, il presidente turco sembra aver allentato le tensioni sull’asse Ankara-Washington pubblicando un tweet di ringraziamento con tutte le bandiere degli stati e i loghi delle organizzazioni che hanno inviato messaggi di condoglianze alla Turchia a seguito dell’attacco di Istanbul.

Come è noto, il supporto finanziario e militare del Pentagono ai gruppi filo curdi delle SDF, che hanno contribuito alla sconfitta di IS in Siria, è fra i motivi principali di attrito nelle complesse e ondivaghe relazioni fra Stati Uniti e Turchia degli ultimi anni, in cui ha giocato un ruolo di rilievo anche la linea di condotta poco coerente adottata da Ankara nella lotta allo Stato Islamico in Siria. In questo contesto, è verosimile che le responsabilità dell’attacco attribuite dal governo turco al PKK siano tese a giustificare un ulteriore intervento in territorio siriano, dopo le quattro diverse operazioni militari condotte ai danni delle milizie curde nel nord della Siria a partire dal 2016 (l’ultima, “Spring Shield”, risale al febbraio del 2020), nonché il dispiego di ingenti risorse finanziarie voluto da Erdoğan per condurre tali incursioni. Secondo gli analisti di SETA, un think tank con sede ad Ankara, la presenza militare della Turchia in Siria costa al paese circa 2 miliardi di dollari all’anno, una somma che include le spese per l’addestramento e lo stipendio di oltre 50.000 combattenti ribelli siriani e di circa 5.000 contingenti turchi impegnati nelle aree controllate da Ankara. A tutela della propria scurezza nazionale, la Turchia intende realizzare una safe zone profonda 30 chilometri nella parte settentrionale della Siria, ed estendere così la zona cuscinetto già esistente al confine turco-siriano che, de facto, spezza in due parti il territorio a prevalenza curda. In altre parole, l’obiettivo di Ankara è quello di scongiurare la creazione di un’autonomia territoriale curda nelle regioni siriane adiacenti alla sua frontiera meridionale. A questo si aggiunga che la popolazione turca, in linea con la visione del governo, vede nella creazione di quest’area cuscinetto la soluzione principale al rimpatrio di una parte dei circa quattro milioni di rifugiati siriani presenti da anni in Turchia. Negli anni è cresciuto il malcontento nei loro confronti, tanto che alcuni commentatori turchi hanno parlato dei siriani temporaneamente ospitati nel paese come di una sorta di “bomba a orologeria” che minaccia l’economia e la sicurezza della Turchia, anche se al momento non sembra essere stata confermata la presenza di cellule terroristiche all’interno dei campi profughi.

L’estate scorsa, il presidente turco ha paventato la possibilità di un nuovo intervento militare per ultimare la realizzazione della safe zone, ma finora l’offensiva è stata rimandata anche per l’opposizione degli Stati Uniti e della Russia. In Siria, la Turchia ha sempre dovuto sempre cercare un modus operandi con Mosca, che in questo momento spinge per un riavvicinamento tra Ankara e il regime di Bashar al-Assad, contrario a qualsiasi ingerenza turca nel paese. È lecito chiedersi se l’attentato di Istanbul possa rendere più concreta la prospettiva di una nuova operazione militare turca nel nord siriano, fermo restando l’osteggiamento americano e russo, e in virtù della riduzione delle forze militari di Mosca in Siria a causa della guerra in Ucraina.

 

La Turchia al bivio delle elezioni

Che significato ha, oggi, colpire una città chiave come Istanbul con un attacco così efferato, e chi può avere interesse a destabilizzare il paese? L’attentato si inserisce all’interno di un quadro politico ed economico delicato per la Turchia. Mentre quest’ultima si prepara alle prossime elezioni presidenziali e legislative, sono ancora molti i nodi da sciogliere sia sul fronte interno sia sul piano delle relazioni internazionali, tanto con i paesi occidentali quanto con la Russia. In gioco ci sono innanzitutto la rielezione di Erdoğan e il successo elettorale del suo Partito Giustizia e Sviluppo (AKP), che il presidente spera di ottenere puntando anche sul sostegno alla crescita economica del paese (al 7,6% nel secondo quadrimestre di quest’anno). Sebbene l’indice di gradimento per l’operato di Erdoğan sia in leggera risalita rispetto agli scorsi mesi (46,6% a inizio novembre contro 41,5% di luglio), il complicato andamento dell’economia, caratterizzato da un’inflazione galoppante (intorno all’85,5%) e da un significativo deprezzamento della lira (che ha raggiunto i minimi storici), continua a gravare sulla popolarità del capo dello stato. In una cornice già estremamente fragile, l’attentato di Istanbul potrebbe indebolire il settore del turismo, che rappresenta una voce importante del Pil turco e ha trainato la crescita economica dei mesi estivi. Sul fronte delle relazioni internazionali, le responsabilità addossate da Ankara al PKK/YPG si innestano, tra le altre cose, anche nel dibattito politico in corso sulla possibile adesione della Finlandia e della Svezia alla NATO in risposta all’invasione russa dell’Ucraina, che la Turchia ha momentaneamente bloccato accusando i due paesi di offrire ospitalità ai membri dell’organizzazione. Recentemente, su pressione del governo turco, le due cancellerie europee hanno fatto sapere che le richieste di Ankara (compresa l’estradizione di alcuni militanti affiliati al PKK e la presa di distanza dal terrorismo) verranno accolte. Alla vigilia delle elezioni, si tratta di un’altra freccia nell’arco di Erdoğan, che punta a riscuotere sul fronte interno i successi ottenuti in politica estera (fra questi la buona riuscita della mediazione nel conflitto fra Russia e Ucraina), consolidando così l’immagine di un governo forte anche sul piano internazionale, di un partito compatto, e di un programma credibile. All’indomani dell’attacco, sul piano interno bisogna attendersi un rafforzamento della sicurezza unito a un giro di vite, soprattutto nei confronti della questione curda. Come già accaduto in passato, nelle fasi di incertezza la figura dell’uomo forte al comando potrebbe ritornare a essere un punto di riferimento.

[1] Tramite le parole del suo comandante in capo, Mazloum Abdi, anche le SDF a guida curda hanno negato qualsiasi ruolo in quanto accaduto.

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