Il 22 febbraio scorso, in pieno sciopero nazionale, il generale a capo della giunta birmana Min Aung Hlaing ha dovuto, per la seconda volta, richiamare all’ordine medici e paramedici accusati di non avere un’etica alla luce della loro adesione al “Movimento di disobbedienza civile” (Cdm), nato pochissimi giorni dopo il colpo di stato militare del 1° febbraio in Myanmar. Ma come ha notato Irrawaddy, una pubblicazione locale, un secondo richiamo significa solo che il primo non è andato a buon fine. Al generale è toccato scontrarsi con i numeri: 357 ospedali sui 1262 del Paese hanno chiuso i battenti. “Chi non è disciplinato sarà punito,” ha detto Hlaing. La questione non è tuttavia così semplice, come non è nemmeno così vero che i servizi sanitari siano chiusi: chi ha aderito alla disobbedienza civile, infatti, spesso continua a fornire assistenza, seppur paralizzando le strutture. L’emergenza sanitaria non è stata dimenticata.
La rabbia del generale Hlaing nei confronti dei medici non è una novità. È una ruggine antica tra la casta in divisa e la categoria in camice bianco: i primi cultori della forza, i secondi l’élite della società birmana. Un’élite progressista, venuta allo scoperto nel 2015 quando iniziò un vero e proprio movimento di protesta contro la “militarizzazione” del sistema sanitario. Per capire chi manifesta oggi nelle piazze birmane, riempite dallo sciopero generale del 22 febbraio che ha bloccato l’intero Paese, bisogna forse partire proprio da medici e paramedici. Anche questa volta a causa di Covid-19, un movimento, in parte spontaneo e in parte organizzato, non ha potuto contare sugli studenti, traino tradizionale di molte rivoluzioni, dal Sessantotto occidentale all’Ottantotto birmano. In quell'anno, toccò proprio agli studenti promuovere la protesta antimilitare, pagandone un prezzo altissimo. Ma non siamo più nell’Ottantotto, bensì nel 2021. E tra gli slogan più gettonati c'è proprio questo: “Avete sbagliato generazione,” dicono i giovani manifestanti ai generali. “Non molliamo”.
Il movimento di protesta, quello che oggi si riconosce nel ‘Civil Disobedience Movement’ di gandhiana memoria, nasce da quell’appello alla resistenza che Aung San Suu Kyi riesce a far filtrare nei giorni del suo arresto. È il suo ultimo messaggio o almeno quello che noi crediamo tale, perché poi la Lady sparisce e con lei anche la leadership della Lega nazionale per la democrazia. Ma forse c’era un piano, seppur abbozzato, in caso le cose andassero male. O, più semplicemente, quell’abbozzo di organizzazione rimasto in piedi (gli arresti sono centinaia e gli attivisti inquadrati migliaia) si salda con una rivola spontanea, che inizia nei centri urbani battendo ritmicamente pentole e padelle.
A Mandalay, tuttavia, medici e paramedici prendono l’iniziativa, come avevano già fatto nell’agosto del 2015 con il ‘Black Ribbon Movement’, quando professionisti e studenti di medicina si erano schierati contro la nomina dei militari in posizioni chiave nella Sanità. Un Movimento che nasce quando mancano pochi mesi alle elezioni che porranno fine alla presidenza del generale Thein Sein e consegneranno ad Aung San Suu Kyi e alla Lega le redini del Paese. Nel 2021, la rete si riavvia subito e forma l’avanguardia del Cdm: un nuovo movimento sanitario, il ‘Red Ribbon’, che garantisce che anche chi continua a lavorare nell’assistenza sanitaria possa esprimere il proprio dissenso. Quando poi si muovono anche gli ingegneri e gli aviatori, il Cdm prende quota.
Ciò che impressiona di più oggi rimane comunque la risolutezza della burocrazia statale. Se nel Ministero degli Esteri un terzo del personale inizialmente aderisce al Cdm (seppur facendo un passo indietro poco dopo), la Banca centrale del Myanmar chiude i battenti e il sistema bancario nazionale comincia a saltare. Persino gli istituti di credito, proprietà del Tatmadaw, sono costretti a chiudere per mancanza di liquidità. Per la giunta diventa difficile persino battere moneta e i buoni del tesoro lanciati sul mercato non sono affatto appetibili. Si blocca l’anagrafe, il settore forestale, quello dell’energia. Si fermano i treni ed incrociano le braccia persino i lavoratori delle aziende cinesi, mentre su 93 partiti registrati in Myanmar solo un terzo – tra quelli minori – sostiene il golpe. La giunta, in evidente difficoltà, sembra non aver messo in conto una protesta diffusa, che resiste da settimane. Per una volta, il Covid dà una mano: il governo di Suu Kyi aveva infatti consentito a molti dipendenti pubblici di ottenere due mesi di stipendio anticipato e montano dunque riserve al colpo di stato.
Lo sciopero del 22 febbraio rimane quindi la cartolina della protesta: negozi serrati e piazze stracolme. Persino i lavoratori informali hanno chiuso le loro bottegucce ambulanti. Anche le autorità religiose prendono posizione: se Bhamo Sayadaw Bhaddanta Kumara, al vertice della comunità buddista birmana, lancia appelli per il dialogo, anche la Chiesa cattolica chiede un negoziato attraverso un “appello alla riconciliazione attraverso il dialogo,” firmato da tutti i presuli delle 16 diocesi birmane.
Ci sono altri due elementi che vanno considerati: l’appoggio, più o meno caloroso, spesso indiretto e informale, che arriva dagli Stati periferici e dalle Regioni, dove la giunta ha creato tanti piccoli cloni del Consiglio amministrativo di Stato (Cas). Un’operazione che riesce solo sulla carta e che bypassa i grossi partiti etnici che vi si oppongono. Si scelgono quindi civili con qualche autorità (come, per esempio, il rettore dell’Università di Lashio nello Stato Shan) o esponenti di minuscoli partitini etnici alleati con quello dei militari. Il secondo elemento fondamentale da considerare sono le proteste che infiammano tutto il Sud-est asiatico, non solo il Myanmar. A Bangkok, Manila e Giacarta non si esita ad appoggiare la protesta birmana, influenzando anche l’intero ASEAN, sotto pressione perché non riconosca le azioni della giunta.
Infine, si aggiunge un elemento di carattere globale. Nell’epoca dei social media, per la prima volta, la protesta democratica birmana ha un palcoscenico. Serve a poco bloccare Internet per otto ore al giorno: immagini, video e slogan sono ormai virali su Twitter, Facebook e Instagram. Viaggiano attraverso Signal, un’applicazione di messaggistica simile a WhatsApp. Una luce sull’oscuro golpe birmano che mette in imbarazzo la giunta e i conti frettolosi di un colpo di Stato dagli esiti ancora incerti.