Fra pochi anni, quando presumibilmente sia gli Stati Uniti che la Nato saranno ancora impegnati in Afghanistan, la guerra più lunga nella storia americana compirà vent’anni. È dal 2001 che le forze americane e alleate si impegnano alla ricerca di una stabilizzazione, che tuttavia è ancora lontana a venire. Certo alcuni scopi strategici gli Stati Uniti li hanno già perseguiti con successo: la cattura di Bin Laden e la conversione dell’Afghanistan in un paese poco ospitale per i gruppi terroristici di matrice islamista. Il primo obiettivo, seppur con qualche ritardo, è stato ottenuto. Il secondo, quello più facilmente reversibile, seppur con fatica, è stato parzialmente raggiunto – almeno se si compara l’Afghanistan attuale a quello del regime dei Talebani e alla libertà di movimento di al-Qaeda nel paese negli anni ’90.
Tuttavia, la guerra non è finita. Il disimpegno militare non è concluso ed è lontano dall’essere una priorità nell’agenda politica di Donald Trump. La prospettiva che l’abbandono del paese a se stesso si possa tradurre in una disfatta strategica nella regione e in un colpo micidiale alla credibilità degli Stati Uniti è sempre più plausibile. Non stupisce dunque che anche la nuova amministrazione, volente o nolente, abbia dovuto fare i conti con una nuova strategia per l’Afghanistan. Il tema è ineludibile: a ogni nuovo presidente americano è richiesto di imprimere una svolta, una discontinuità risolutiva. Trump, nell’agosto 2017, ha dunque lanciato la suastrategia sottolineando le novità rispetto agli errori del passato.
Il punto è che dopo 17 anni di conflitto le carte da giocare in Afghanistan sono state giocate tutte o quasi. Gli Stati Uniti, a partire dal 2001, hanno esplorato un universo di strategie e tattiche particolarmente vario: hanno condotto operazioni di contro-terrorismo; hanno convertito la missione americana e della Nato in missione di contro-insorgenza; si sono disinteressati, poi interessati, poi di nuovo disinteressati allo state-building; hanno rifiutato l’aiuto della Nato nel 2001, per affidargli successivamente il comando della missione multilaterale Isaf; hanno preteso di vincere la guerra con una presenza leggera (il light footprint di Rumsfeld) ma hanno poi ri-americanizzato la guerra con il surge di Obama, arrivando ad avere 100.000 uomini dispiegati nel paese; e molto altro.
Se nella nuova strategia di Obama– la Af-Pak Strategy del 2009 – erano rilevabili alcune discontinuità rispetto all’approccio di G.W. Bush, per Trump marcare una discontinuità rispetto a chi l’ha preceduto (tanto rispetto a Obama quanto a Bush) è estremamente difficile. Non sorprende infatti, soprattutto agli occhi di chi segue la vicenda dell’intervento in Afghanistan fin dalle sue origini, che di novità ce ne sono ben poche. Trump è condannato, non necessariamente per inerzia, a rimestare fra gli stessi ingredienti e opzioni. Non solo, è costretto a rivestire di originalità vecchie ricette. Il risultato è necessariamente un ‘nuovo’ approccio strategico carico di ambiguità e paradossi.
Almeno due di questi paradossi sono più degni di nota di altri. Il primo è senz’altro la pretesa novità delle pressioni annunciate sul Pakistan, colpevole di alimentare il conflitto e indebolire il governo di Kabul. Al di là delle pressioni che già Bush fece sul generale Musharraf e che Obama fece sul presidente Zardari (entrambi con scarso successo), Donald Trump ha poche leve per cambiare significativamente le politiche di Islamabad. Se da un lato caldeggiare buone relazioni con l’India e fra India e Afghanistan può essere uno strumento di pressione sul Pakistan, rimane vero che dall’altro lato anche Trump rimane dentro al vincolo degli allineamenti regionali (ribadito esplicitamente dalla sua amministrazione), secondo cui gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di abbandonare il Pakistan a favore dell’India. Non è un caso che alle pressioni annunciate su Islamabad non hanno fatto seguito provvedimenti legislativi per limitare sul serio le politiche pakistane nel supporto ai gruppi armati. Non solo, Trump deve affrontare lo stesso dilemma con cui si è scontrato Obama: quanto più si minaccia un riallineamento a favore dell’India, tanto più Islamabad – pur sentendosi sotto pressione - sarà incentivata a lavorare a favore dell’agognata profondità strategica in Afghanistan, per timore dell’isolamento, sostenendo i gruppi di opposizione armata in Afghanistan.
Il secondo paradosso è figlio del dato per cui né il contro-terrorismo né la contro-insurrezione hanno funzionato in Afghanistan. Il primo ha dato dei risultati negli anni di Bush, su un piano strettamente militare, nello smantellare la rete di al-Qaeda ,ma ha compromesso una strategia più ampia di ricostruzione del paese. La seconda ha funzionato ai fini del miglioramento delle condizioni di sicurezza – per lo meno nelle aree urbane – ma è una strategia di lungo periodo, assai dispendiosa e che richiede un’infinità di uomini, e che dunque non è sostenibile da parte USA e Nato nel lungo periodo. Sul punto la strategia di Trump è particolarmente ambigua. Per un verso, critica (con buone ragioni) le scadenze imposte alla missione da parte di Obama e, in una prospettiva di contro-insurrezione, molto pragmaticamente d’ora in avanti ritirarsi verrà deciso sulla base di ciò che avviene sul terreno, non sulla base di annunci di principio. Per un altro verso, dichiara che non è interessato allo state-building: contraddicendo l’idea di proseguire con la counter-insurgencyannuncia infatti un rinnovato disinteresse per lo state-building – il quale invece è una componente costitutiva della contro-insurrezione.
L’idea di tornare a focalizzarsi solo sul controterrorismo, lasciando perdere i progetti di ricostruzione politico-istituzionale, è una scelta economica, attraente per l’opinione pubblica e coerente con l’approccio semi-isolazionista del presidente. Tuttavia, la fascinazione per le forze speciali, illight footprinte un approccio chirurgico al terrorismo – soprattutto se accompagnato dal disinteresse per lo state-building – non solo non sono una novità ma sono già stati sperimentati negli anni di Bush con apparenti successi di breve periodo e pessimi risultati di lungo periodo.
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