La Libia è entrata nella “primavera araba” in maniera anomala. Per la natura armata della rivolta-guerra civile scatenata contro Gheddafi, la sua internazionalizzazione, sollecitata e ottenuta da Bengasi nella consapevolezza che senza un sostegno armato esterno non sarebbe mai riuscita ad aver ragione del Rais. Che ha avuto il duplice torto di essersi reso inviso a (quasi) tutta la Comunità internazionale, ben prima dello scoppio della rivolta, e di governare un paese ricco ma non importante strategicamente.
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Questo conflitto così radicato attorno al possesso della terra, ha attraversato indenne il cataclisma geopolitico della fine della guerra fredda. Una questione che alla fine non riguarda più di 13 milioni di persone e un territorio grande come l’Emilia Romagna, ha continuato la sua interminabile rissa, sorda alla scomparsa del bipolarismo, all’avvento della Cina come grande acquirente del petrolio mediorientale, al decennio clintoniano di bonanza economica e alla grande crisi finanziaria di questi ultimi anni.
Lo Stato fa la guerra e la guerra fa lo Stato. La nascita del Sud Sudan, che sarà celebrata il 9 luglio a Juba, realizza entrambi gli elementi di un distico ormai storico. Il Sudan ha difeso finché possibile la sua integrità e sovranità, ma al termine di una guerra durata quasi ininterrottamente dall’indipendenza nel lontano 1956 si è piegato al realismo se non a una sconfitta. Il Comprehensive Peace Agreement (Cpa), firmato nel 2005, prevedeva l’opzione secessionista e nel referendum svoltosi all’inizio di questo 2011 il responso è stato pressoché unanime.
La successione alla direzione generale del Fondo monetario internazionale, dopo le dimissioni di Strauss Kahn, è stata l’occasione per il riaffiorare di una contesa politica, comunque sempre latente in questo primo scorcio di XXI secolo, che vede opposti da un lato le volontà e le pretese del mondo occidentale, dall’altro quelle delle principali potenze emergenti, con in testa il gruppo dei paesi BRICs.
La tragedia della guerra nella ex Jugoslavia (1991-1995) sembra riassumersi nei versi dello scrittore jugoslavo Meša Selimović: «Quel giorno chiederemo all’Inferno: “Ne hai avuto abbastanza?” e l’Inferno risponderà: “Ce n’è ancora?”» (Il Derviscio e la Morte).
L’azione della Corte Penale Internazionale (Cpi) contro il leader libico Muammar Gheddafi sembrerebbe all’apparenza un incredibile autogol. Si dichiara al dittatore, che si vorrebbe lasciasse il paese, che lo si perseguiterà comunque, ovunque andrà. In pratica lo si dissuade ulteriormente – come se ce ne fosse bisogno – ad abbandonare la battaglia e lo si incentiva a resistere prolungando il conflitto civile e l’agonia dell’intero paese.
Il tema della giustizia internazionale penale è stato recentemente riportato all’attenzione dell’opinione pubblica in relazione ai casi del colonnello Muammar Gheddafi e del generale Ratko Mladić.
Con il recente arresto e trasferimento all’Aja di Ratko Mladić, ricercato da lungo tempo in base a un atto d’accusa emesso dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia nel 1995, la giustizia internazionale segna un punto importante a suo favore. Quando nel 2004 il Consiglio di sicurezza decise di chiedere al procuratore di porre fine alle indagini sui crimini commessi nella regione balcanica a partire dal 1991, gli individui accusati erano 161 e solo uno di loro, Goran Hadžićè, ancora latitante.
Una Libia debole e fragile, uno stato fallito o due Libie. Questi gli scenari più plausibili a quasi due mesi dall’inizio dell’intervento militare decretato dalla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza Onu.
Il Corno d’Africa è da decenni considerato una delle regioni più instabili di tutta l’Africa sub-sahariana. A tensioni locali di livello etnico, religioso e politico, si sono aggiunti fattori di competizione tra gli stati dell’area per l’egemonia regionale. Negli anni della Guerra fredda, il Corno è stato il principale tra i teatri africani della guerra per procura condotta dalle superpotenze.