Un anno dopo la Giornata della Collera del 17 febbraio 2011 il regime di Gheddafi non esiste più, ma la Libia appare ancora lontana da una transizione democratica. Il vuoto di potere creato inevitabilmente dalla caduta del colonnello non è stato colmato completamente dal Consiglio nazionale transitorio, né dal governo provvisorio da questo nominato. Il Cnt anzi soffre in queste ore una fortissima crisi di legittimità. Pochi in Libia vedono di buon occhio il suo leader Jalil.
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Il Lockheed Martin F-35 Lightining II è il più ambizioso programma di armamenti della storia e un tassello nella collaborazione transatlantica nell’aerospazio e difesa. Già conosciuto come Joint Strike Fighter è un caccia multiruolo di 5a generazione con capacità stealth che sarà prodotto in tre versioni: F-35A a decollo convenzionale; F-35B a decollo corto e atterraggio verticale (STOVL) per portaerei con ponte adatto; F-35C per portaerei con catapulte (CATOBAR) sistema tipico della US Navy.
In questi mesi è in corso un profondo ripensamento della politica estera italiana verso alcune aree e verso alcuni paesi. L’Italia, nella conduzione della propria politica estera, è spesso riuscita, nel corso di decenni, a conciliare due esigenze entrambe fondamentali: la necessità di buone relazioni con paesi per essa strategicamente rilevanti, come Libia, Iran, Russia, ma politicamente difficili per la sfera d’afferenza atlantica, e la piena appartenenza proprio al campo atlantico ed europeo dell’Italia.
Quella libica non è stata una guerra per il petrolio attuale, ma per gli idrocarburi del futuro. Nell’agosto scorso Teheran ha ospitato la cerimonia per il cinquantesimo anniversario di fondazione dell’Opec, con il ministro del petrolio iraniano, Masoud Mirkazemi, che ha affermato, per le orecchie che vogliono intendere, che «il mercato petrolifero non va politicizzato» e che l’Organizzazione con sede a Vienna vuole espandere il proprio ruolo nella sicurezza degli approvvigionamenti energetici e delle linee di trasporto.
Nel Medio Oriente che si sta plasmando come conseguenza della Primavera araba il Qatar sta conquistando una posizione sempre più rilevante, dal punto di vista della diplomazia, del soft power e del potere politico ed economico-finanziario. Non è una novità che la piccola – piccolissima: poco più di un milione e mezzo di abitanti – penisola del Golfo Persico stia tentando di ritagliarsi un ruolo di primo piano nello scacchiere mediorientale.
La minaccia dei vertici politici della Repubblica islamica di chiudere lo Stretto di Hormuz, le conseguenti manovre della marina militare dell’esercito nazionale iraniano nel Golfo Persico insieme al continuo sviluppo del programma nucleare iraniano, hanno provocato, nell’ultimo mese, l’intensificarsi della stretta degli Stati Uniti e dei paesi dell’Unione europea su Teheran.
L’islam politico come emulazione o riedizione del khomeinismo non sembra avere un futuro. A differenza di quanto avvenuto e avviene in Iran, la leadership religiosa, soprattutto nei paesi a maggioranza sunnita, non fa registrare una presenza attiva nella società e nel discorso sul potere balbetta. Al più mullah e ulema si pronunciano in modo più o meno solenne sulla morale pubblica e sui comportamenti personali.
La congiuntura internazionale nella quale ci troviamo è paradossale, ai limiti dell’ironia.
Hamad bin Khalifa Al Thani è probabilmente l’uomo più influente e, insieme, meno conosciuto del mondo arabo. L’emiro del Qatar, piccolo paese del Golfo ricco di giacimenti di gas tanto da farlo uno dei maggiori produttori mondiali, è salito al potere nel 1995 scalzando il padre con un colpo di stato incruento. Le promesse di parziale apertura democratica sancite nella Costituzione emanata dieci anni più tardi, e che prevedevano l’elezione diretta di due terzi del parlamento, in realtà non si sono mai concretizzate.
Nel 2012 l'Iran continuerà a essere al centro del vortice d'instabilità mediorientale.