L’accordo concluso martedì scorso ha registrato la forte opposizione fino all’ultimo di una larga fascia del panorama politico iraniano.
L’accordo raggiunto a Vienna sulla delicata questione del nucleare iraniano apre, per gli Stati Uniti, scenari complessi e dalle implicazioni ramificate. Il semplice fatto che, pur con tutte le difficoltà che hanno punteggiato il negoziato, si sia giunti a questo risultato rappresenta una tappa importante per due interlocutori che dalla rivoluzione del 1979 avevano improntato le proprie relazioni su un’ostilità dichiarata, mai realmente scalfita dalle rade e diffidenti aperture registrate.
Lunghi anni di negoziato, dodici nell’insieme, condotti ufficialmente e segretamente; poi il loro rilancio con l’arrivo alla presidenza di Rouhani, la bozza d’intesa preliminare, i diversi rinvii, quindi i “Parametri” dell’aprile scorso; la scadenza del 30 giugno prorogata al 7, poi al 9 e infine la conclusione il 14 luglio.
La maratona negoziale senza precedenti che ha condotto all'intesa sul Piano d’azione congiunto globale sul nucleare iraniano conclusasi a Vienna conferma che in diplomazia la professionalità e la fiducia reciproca contano e possono fare la differenza. Attraverso la faticosa trattativa è stato abbattuto un decennale muro di ostilità, creatosi in particolare tra Washington e Teheran, aprendo così la strada a possibili ulteriori convergenze.
Se qualcuno avesse dubbi sul senso più profondo, e sulle implicazioni geopolitiche, dell’accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Vienna, basterebbe notare che il suo più accanito avversario, il primo ministro israeliano Netanyahu, invece di tracciare a cupe tinte lo scenario di un Iran genocida intenzionato a dotarsi di bombe atomiche per annientare Israele, si preoccupa che grazie all’accordo Teheran possa disporre di maggiori mezzi, e di minori limitazioni, per portare avanti il proprio disegno di egemonia regionale.