Parlare di politica “estera” italiana nei confronti dell’Ue rischia di essere quanto meno fuorviante. Moltissime politiche che tradizionalmente vengono considerate “nazionali” – come ad esempio le politiche di bilancio – sono ormai strettamente vincolate (se non addirittura imposte) nelle loro procedure, tempistiche e finalità dalle Istituzioni di Bruxelles.
«Speriamo che questo segni la fine del cosiddetto ‘Islam politico’», è il commento sugli eventi degli ultimi giorni in Egitto di un amico che vive al Cairo da molti anni e che, pur essendo un profondo conoscitore dell’Islam, ne ha sempre guardato con diffidenza le ambizioni politiche. Sono in molti a pensarlo, e ad auspicarlo.
Mentre la comunità internazionale segue con preoccupazione l’evoluzione degli eventi in Egitto, dall’Arabia Saudita sono giunte le congratulazioni di re Abdullah al nuovo presidente egiziano ad interim Adly Mansour. Il regime di Riyadh può finalmente tirare un sospiro di sollievo.
I fattori che hanno promosso e portato a termine il cambio di regime in Egitto sono stati la piazza, l’esercito e la Fratellanza Musulmana, che ha vinto le elezioni e ha governato per circa un anno dopo la caduta di Mubarak sotto l’urto delle manifestazioni e dopo l’interludio del governo di una giunta militare in attesa del compimento del processo elettorale. I tre fattori sono ritornati in campo in questi giorni di scontri con un risultato diverso. L’esercito non ha mediato come allora fra la piazza e il potere assicurando in fondo la legalità della transizione.
A pochi giorni dal primo anniversario della presidenza Morsi e a oltre due anni dallo scoppio delle sollevazioni che hanno portato alla caduta del regime di Mubarak, l’intero Egitto sembra trattenere il respiro, in attesa di conoscere cosa avverrà il 30 giugno.
A distanza di oltre un anno dal ritiro delle forze americane dall’Iraq, le elezioni provinciali del 20 aprile scorso hanno rappresentato uno dei momenti più significativi del secondo mandato del premier Nuri al-Maliki.
A fine aprile la Turchia è entrata nella “big family” della Shangai Cooperation Organization (Sco) – l’organizzazione che coinvolge Russia, Cina, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Uzbekistan –, in qualità di “partner di dialogo”. La firma del Memorandum di cooperazione il 26 aprile ad Almaty in Kazakistan completa un processo iniziato lo scorso anno al summit della Sco di giugno a Pechino. Quali saranno i risvolti pratici dello status di partner di dialogo acquisito dalla Turchia è ancora da capire.
Negli ultimi mesi l’Asia orientale ha dato di sé l’impressione di essere una santabarbara pronta a saltare in aria. Un pericoloso mix di sentimenti nazionalisti e politiche nazionali ha reso il clima della regione irrespirabile, riportando a galla e, in alcuni casi, esacerbando, lunghe e angosciose controversie che per decenni hanno frustrato la possibilità di costruzione di solidi rapporti tra paesi di quell’area.
Il Partito britannico dell’indipendenza (UK Independence Party – Ukip) venne creato all’inizio degli anni Novanta (1993), in seguito alla dissoluzione della Lega Anti Federalista, nata nel 1991 per contrastare le proposte contenute nel Trattato di Maastricht.
La crisi dell’euro ha fatto precipitare l’Europa nella “politica dell’ansia”. Il disagio sociale è sempre più acuto. Più della metà delle famiglie (Scandinavia e Germania escluse) dichiara che non ce la farebbe a sostenere una spesa inaspettata di mille euro nei prossimi dodici mesi, più di un terzo si definisce “povero”. Come stupirsi se elettori sempre più insicuri puniscono i leader in carica, si rifugiano nell’astensionismo, si lasciano sedurre dalle sirene populiste?
L'incontro, che fa parte del ciclo di conferenze “L'Italia e la Politica Internazionale”, è stato organizzato nell'ambito dell'Alta Scuola di Politica Internazionale promossa da ISPI e Fondazione Sicilia
L'iniziativa si è tenuta presso l'Alta Scuola di Politica Internazionale (Palazzo Branciforte, Via Bara all'Olivella, 2 - Palermo).
Sarà la gestione delle acque del Nilo a scatenare il prossimo conflitto in Africa orientale? È presto per dirlo, ma lo sfruttamento delle risorse idriche, se non sarà gestito attraverso accordi internazionali, potrebbe diventare fonte di crescenti tensioni fra i Paesi della regione.
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