Il premio Nobel per la Pace 2016 è stato assegnato oggi a Juan Manuel Santos Calderón, Presidente della Colombia. Questo rappresenta un riconoscimento del duro lavoro fatto nel processo di pace con le FARC. Nell’epoca dei referendum popolari, capaci di dettare linee politiche anche contrarie rispetto alle posizione dei governi che vi ricorrono, i giurati del Nobel stupiscono prendendo una chiara posizione contro il risultato del referendum che si è tenuto il 2 ottobre in Colombia e che non ha approvato i termini dell’accordo.
Con meno fervore e una buona dose di incertezza, il governo della Colombia ha firmato un nuovo accordo di pace con il principale gruppo guerrigliero del Paese, le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC). Si tratta del secondo trattato siglato in meno di due mesi.
Per ottenere una firma frettolosa il presidente Santos ha ceduto troppo. E la popolazione colombiana non ha perdonato.
La paura ha vinto. La “pace d’inchiostro”, firmata solennemente dalle parti a Cartagena il 26 settembre, è stata rifiutata dalle urne. Il 51,3% dei colombiani ha respinto l’accordo raggiunto all’Avana tra il governo del presidente Juan Manuel Santos e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc). Un risultato del tutto imprevisto che rimette in discussione tre anni e nove mesi di negoziati giunti, con sforzi inediti, a buon fine.
Per la prima volta in 50 anni la pace in Colombia risiede nelle mani del suo popolo, che domenica 2 ottobre voterà un referendum per approvare gli accordi raggiunti tra il governo di Bogotà e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc).
Si sono conclusi lo scorso 24 agosto 2016, all’Avana (Cuba), i negoziati per la cessazione delle ostilità e la costruzione di una pace stabile e duratura tra il governo colombiano e le Farc-Ep (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia - Ejercito del Pueblo).
Un’intesa di portata storica. Il governo della Colombia e i guerriglieri delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc) hanno firmato a L’Avana un accordo di pace definitivo. Termina un conflitto durato 50 anni che ha provocato 300.000 morti e 7 milioni di profughi. Nei prossimi 60 giorni saranno consegnate tutte le armi e nei successivi sei mesi i militanti confluiranno in 23 aree di smobilitazione e in 6 accampamenti provvisori.
Non sarà il 23 marzo 2016 il giorno destinato a passare alla storia come quello in cui si sono firmati gli accordi per porre fine alla lunga guerra civile tra lo stato colombiano e le Farc. Era stato il 23 settembre che, al momento della storica stretta di mano tra il presidente Juan Manuel Santos e il capo di stato maggiore del movimento guerrigliero Rodrigo Londoño Echeverri alias “Timoleón Jiménez”, alias “Timochenko”, era stato convenuto di concludere l’intero processo entro sei mesi.
A pochi giorni dalle elezioni presidenziali del 25 maggio prossimo, il processo di pace in corso a Cuba tra il governo colombiano e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc) è diventato sempre di più il tema centrale della campagna elettorale. Mai come questa volta i cittadini colombiani sono chiamati a esprimere con il loro voto un’approvazione o meno degli accordi.
Caracas ribolle. La piazza è in fermento. E il governo pure. In gioco, però, non c’è solo la tenuta del bolivarismo, ma un complesso sistema di equilibri regionali. Chávez – e di conseguenza, al di là dello scarso carisma, il successore – ha segnato una pagina di storia latinoamericana. Al Venezuela si intrecciano dunque i destini dei vicini. Primo fra tutti l’amico-nemico di sempre: la Colombia.
«Ho perso la fiducia nel presidente Santos e sto valutando l’opportunità di continuare o meno ad appoggiare il processo di pace tra il governo colombiano e le FARC». Con queste parole il presidente venezuelano Nicolás Maduro, eletto il passato mese di aprile, ha commentato l’incontro tra il leader dell´opposizione del suo paese, Henrique Capriles, e il presidente colombiano, Juan Manuel Santos, avvenuta a fine maggio a Bogotá.
Proprio dall’elezione di Hugo Chávez iniziò in America Latina quel fenomeno che i media hanno genericamente definito dell’“ondata a sinistra”. Alcuni paesi, però, hanno sempre mantenuto governi moderati.