On March 11, two weeks after the creation of Ukraine’s International Legion, Russian President Vladimir Putin announced that he would approve the deployment of up to 16,000 Middle Eastern fighters to support Russian-backed rebels in Ukraine.
Following Ukrainian President Zelensky’s announcement of the creation of a new International Legion of Territorial Defense, essentially inviting foreigners to join the fight against Russia and promising them arms upon arrival, reactions have been mixed. Whereas some saw his plea as a desperate call for help and urged troops and civilians to respond to the call, others expressed greater concerns that this could lead to a renewed flood of foreign fighters.
The conflicts in Syria, Iraq, Libya and other countries have attracted tens of thousands of foreign fighters, who traveled to those areas of conflict to join the ranks of the so-called Islamic State (IS) and other armed groups. While this is not a new phenomenon, the size of the mobilization that occurred with the so-called Islamic State in Syria and Iraq was without precedent, with people from at least 80 countries traveling to join the jihadist group. Out of 40,000, it is estimated that about 5,000 came from Europe and almost 19,000 from the MENA region.
Il problema del rientro dei foreign fighters jihadisti dalle aree di conflitto appare di particolare rilevanza, specialmente dopo il crollo dell’auto-proclamato “Califfato” dello Stato Islamico in Siria e Iraq.
Con un duro messaggio su Twitter, sabato 16 febbraio il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha chiesto agli alleati europei di “riprendersi i propri foreign fighters” dello Stato Islamico catturati dalle forze curde in Siria e di provvedere a processarli. L’alternativa, ha avvertito Trump, sarebbe la liberazione di questi soggetti, con tutti i rischi del caso.
Today the so-called foreign fighters seem to pose a serious threat to the security of countries across the world, including many in Asia.
Whereas most large European countries have been greatly affected by Islamic State-inspired terrorism, Italy has not seen the same degree of radicalization and extremist activity. With a much smaller number of foreign fighters, no terrorist attacks to date, and less developed terrorist networks, the country has been able to cope with the latest wave of transnational terrorism. With the offensives to crush the Islamic State now winding down, however, authorities fear that returning foreign fighters may generate a new surge in terrorist attacks.
Oggi i cosiddetti foreign fighters (combattenti stranieri) jihadisti sembrano porre una minaccia seria alla sicurezza di numerosi Paesi, anche occidentali.
Nonostante l’accordo sulla crisi siriana raggiunto nella notte, disillusione e disincanto segnano in questi giorni l’anniversario della caduta del regime di Mubarak in Egitto, data simbolo delle Primavere arabe, termine con il quale è stata definita quell’ondata di proteste senza precedenti che nel 2011 si diffuse rapidamente nel mondo arabo. Se Tunisia – dove tutto è cominciato –, Egitto, Libia, Siria, Yemen e Bahrein sono stati i paesi maggiormente coinvolti, anche Algeria, Iraq, Giordania, Arabia Saudita, Oman, Marocco e Kuwait hanno conosciuto movimenti di protesta. Cinque anni dopo i paesi della regione hanno vissuto evoluzioni diverse. Qualche governo è stato in grado di portare avanti timide riforme e sembra oggi conservare saldamente il potere. Tre paesi, Siria, Yemen e Libia sono stati falliti, impantanati in conflitti civili. L’Egitto è alle prese con una restaurazione. La sola Tunisia sembra invece continuare a sperimentare una complessa transizione democratica. In tale contesto, questo dossier analizzerà alcune questioni chiave: il dibattito sulla compatibilità di questi paesi con la cultura e i principi democratici; il futuro dell’islam politico, che sino a poco tempo fa sembrava intrecciare le fortune con le Primavere arabe; le cause economiche delle rivolte, sostanzialmente immutate; il ruolo dei media e dei giovani; il processo crescente di radicalizzazione di parte della popolazione; le responsabilità dell’Occidente.
Nel giugno 2014 il numero di foreign fighters, intesi come giovani combattenti stranieri convertiti all’islam radicale e partiti da varie realtà internazionali per combattere nei teatri iracheno e siriano al fianco di organizzazioni jihadiste come Jabhat al-Nusra e Daesh, era stimato a circa 12.000 unità provenienti da 81 diversi paesi. Nel 2015 il numero è più che raddoppiato, raggiungendo circa i 30.000 combattenti provenienti da almeno 86 nazioni.