Il principe Mohammed bin Salman, secondo in linea di successione dinastica al padre re Salman, ha delineato nei giorni scorsi i contorni del suo piano – il cosiddetto Vision 2030 – per la radicale trasformazione dell’economia del regno saudita in un sistema non dipendente soltanto dal petrolio.
Mai come a partire dal 2011 si è discusso in maniera così continuativa e approfondita del ruolo che l’Islam dovrebbe giocare all’interno del sistema politico egiziano, e anche oggi il dibattito rimane estremamente attuale e vivo. Ad animarlo, però, non sono tanto quei movimenti eversivi di matrice islamista radicale che in questi anni sono tornati a sfidare l’autorità del Cairo, soprattutto nella regione del Sinai: piuttosto, a far riemergere questo dibattito sono, serie di realtà portatrici di agende e punti di vista spesso fortemente divergenti. I termini della questione, infatti, hanno r
La seconda metà del 2015 ha confermato le tendenze emerse sui mercati internazionali dell’energia che si erano manifestate a partire dagli ultimi mesi del 2014, ossia una stabile riduzione dei prezzi delle materie prime energetiche. Le quotazioni delle due qualità di petrolio greggio che solitamente sono usate come riferimento sui mercati internazionali, il Brent del Mare del Mare del Nord e il West Texas Intermediate (WTI), dopo aver registrato all’inizio dell’estate una ripresa fino a circa 60 dollari il barile ($/bbl) sono nuovamente calate sui livelli di inizio anno a circa 40-45 $/bbl. I prezzi del greggio, che hanno conosciuto in particolare durante i mesi di agosto e settembre fluttuazioni giornaliere anche molto ampie (5-10%), sono tornati in alcune sedute ai valori minimi dal gennaio 2009, ossia dal momento in cui la crisi economico-finanziaria aveva toccato il suo apice.
Per capire che la Siria è in guerra da cinque anni, che il conflitto ha le sembianze complesse di una piccola guerra mondiale affollata di protagonisti e comprimari, e che la tregua è un fragile schermo di speranza, bisogna uscire da Damasco. In città non c’è apparentemente nulla che faccia pensare a tutto questo, se non le immagini di Bashar al-Assad in divisa, ovunque, molto più numerose in tempo di guerra che in pace.
Il primo maggio 2003 George W. Bush dichiarò il “mission accomplished” della guerra in Iraq. Ora sappiamo che di “accomplished” c’era ben poco e che quel pomposo messaggio dichiarato al mondo a bordo della USS Abraham Lincoln in realtà significava semplicemente la trasformazione del conflitto iracheno in un altro tipo di guerra. Non più battaglie campali e operazioni su vasta scala, ma una lunga e logorante guerriglia fatta di attentati, bombardamenti mirati e brevi battaglie urbane che per molti anni a seguire logorerà lentamente le forze americane.
All’indomani del tentativo di insediamento a Tripoli del governo di unità nazionale guidato dal premier incaricato Fayez al-Sarraj, sembra concretizzarsi l’ipotesi di un intervento militare che veda l’Italia tra gli attori principali, se non addirittura alla guida formale della coalizione internazionale composta, tra gli altri, da Stati Uniti, Francia e Regno Unito.
Il 2015 ha assistito a una nuova proliferazione di crepe materiali e simboliche, drammatizzata dalle nuove minacce terroristiche e simboleggiata, nella stessa Europa, dalla costruzione di muri e barriere ai confini fra uno stato e l’altro.
Ma è l’intero ordine internazionale a essere sprofondato in quello che appare sempre di più come un circolo vizioso. Da un lato, il moltiplicarsi delle crepe politiche ed economiche mette ogni volta in luce l’inadeguatezza degli strumenti esistenti di governance.
Dall’altro lato, la mancanza o il ritardo delle risposte concertate approfondisce le crepe esistenti e rischia di crearne di nuove, come è già avvenuto di fronte alle crisi dell’ultimo anno. Il Rapporto Ispi 2016 si propone d’interpretare questa impasse, partendo dai fatti più recenti, ma cercando di cogliere le linee di tendenza più profonde che hanno condotto a questo esito.
La prima parte del volume è dedicata all’evoluzione complessiva dello scenario internazionale, tanto nella dimensione politica quanto in quella economica. Nella seconda parte, l’orizzonte si restringe sull’Italia che, nella crisi degli strumenti multilaterali di governance, rischia di smarrire il tradizionale ancoraggio della propria politica estera.
Nonostante l’accordo sulla crisi siriana raggiunto nella notte, disillusione e disincanto segnano in questi giorni l’anniversario della caduta del regime di Mubarak in Egitto, data simbolo delle Primavere arabe, termine con il quale è stata definita quell’ondata di proteste senza precedenti che nel 2011 si diffuse rapidamente nel mondo arabo. Se Tunisia – dove tutto è cominciato –, Egitto, Libia, Siria, Yemen e Bahrein sono stati i paesi maggiormente coinvolti, anche Algeria, Iraq, Giordania, Arabia Saudita, Oman, Marocco e Kuwait hanno conosciuto movimenti di protesta. Cinque anni dopo i paesi della regione hanno vissuto evoluzioni diverse. Qualche governo è stato in grado di portare avanti timide riforme e sembra oggi conservare saldamente il potere. Tre paesi, Siria, Yemen e Libia sono stati falliti, impantanati in conflitti civili. L’Egitto è alle prese con una restaurazione. La sola Tunisia sembra invece continuare a sperimentare una complessa transizione democratica. In tale contesto, questo dossier analizzerà alcune questioni chiave: il dibattito sulla compatibilità di questi paesi con la cultura e i principi democratici; il futuro dell’islam politico, che sino a poco tempo fa sembrava intrecciare le fortune con le Primavere arabe; le cause economiche delle rivolte, sostanzialmente immutate; il ruolo dei media e dei giovani; il processo crescente di radicalizzazione di parte della popolazione; le responsabilità dell’Occidente.
Durante e subito dopo l’avvento delle cosiddette Primavere arabe, la domanda che era tornata a ricorrere in maniera quasi ossessiva era: “il mondo arabo è compatibile con la democrazia?”. Niente come tale quesito, spesso riproposto in salsa cultural-religiosa (“l’Islam è compatibile con la democrazia?”), risulta privo di senso, se l’obiettivo è quello di immaginare come possa evolvere la situazione politico-istituzionale nei paesi arabi.
Sono passati cinque anni da quando le prime pagine dei giornali di tutto il mondo moltiplicavano i volti dei ragazzi egiziani, tunisini, libici e in misura diversa e minore yemeniti, bahraini e siriani con le bandiere dei rispettivi paesi pitturate sulle facce radiose. Si ragionava di primavere arabe, risveglio mediorientale, rivoluzioni, i cronisti rilanciavano le parole d’ordine di una lingua fino a quel momento nota solo per le invocazioni coraniche, Ash-sha’b yurid isqat an-nizam, il popolo vuole la caduta del regime.
Forse si intravede la fine. O meglio: l’inizio della fine del conflitto siriano. L’accerchiamento di Aleppo e l’interruzione delle vie di approvvigionamento dell’opposizione verso il confine turco si stanno realizzando. I ribelli, moderati, meno moderati o jihadisti che siano, sono in trappola da Aleppo a Idlib, Homs e Hama. Più silenziosamente, ma altrettanto inesorabilmente, le truppe di Assad avanzano nel sud con l’intenzione di riprendere la città di Daraa e i valichi di confine con la Giordania. Non subito, certo.
Cinque anni dopo le rivolte per il cambiamento che hanno scosso Medio Oriente e Nord Africa sono pochi i risultati da celebrare, ma sono moltissime le problematiche su cui riflettere. Libia, Siria e Yemen sono ora paesi in guerra, ma anche nel resto della regione la situazione è fonte di non poche preoccupazioni. In particolare, la questione socio-economica rimane caratterizzata dalle stesse criticità che ispirarono le rivendicazioni delle proteste del 2011.