“Ambiguo” è l’aggettivo maggiormente utilizzato nell’ultimo anno per definire l’atteggiamento della Turchia nei confronti dello Stato Islamico (IS) dopo la proclamazione del Califfato tra Siria e Iraq in prossimità del suo confine meridionale.
Lo Stato Islamico (IS) è in Siria. Un’affermazione apparentemente ovvia, ma che, dando un’occhiata alla copertura mediatica dei drammatici eventi mediorientali nell’ultimo anno, appare meno scontata.
A oltre un anno di distanza dalla caduta di Mosul, qual è lo stato del sistema iracheno e quali sono le possibilità che esso riesca a uscire da una crisi che appare per molti versi irreversibile? Come sempre, quando si parla di Iraq, le risposte a questi quesiti sono molteplici e raramente univoche.
Apparentemente, è il più ignorato degli attesi protagonisti del caos mediorientale. I qaidisti di Jabhat al-Nusra non lo menzionano mai; nei proclami dello Stato Islamico è molto più citata la conquista di Roma che la “liberazione” di Gerusalemme; Bashar al-Assad ha ormai altri problemi, ed è scomparso dalla retorica e dalla propaganda arabe che per oltre mezzo secolo lo avevano usato per raccogliere facili consensi popolari.
Lo scoppio della guerra in Siria ha avuto un forte impatto sul Libano. Non soltanto per l’enorme numero di profughi (a oggi più di un milione) che si è riversato sul territorio libanese (che ha una popolazione di poco più di quattro milioni di abitanti) ma, soprattutto, per le sue ripercussioni in termini politici.
Le tensioni emerse negli ultimi mesi tra Hamas e i gruppi locali salafiti hanno alimentato nuove speculazioni circa la possibile penetrazione politica, ideologica e militare dello Stato Islamico (IS) nella Striscia di Gaza.
È ancora presto per tracciare un bilancio storiografico credibile e un’analisi teorica seria delle cosiddette “primavere arabe”. Ma certamente, quando lo si farà, uno dei temi centrali da trattare sarà quello dei rapporti tra le rivolte del 2010-2012 e il contesto internazionale.
L’attentato di Sousse, località turistica tra le più rinomate in Tunisia, non giunge purtroppo inaspettato. L’attacco contro il museo del Bardo dello scorso marzo, del resto, era un chiaro segnale di come il paese sia diventato uno degli obiettivi del terrorismo di matrice islamica, proprio a causa della sua storia di relativo successo rispetto ad altri contesti interessati delle rivolte del 2011.
Foto: Davanti a una scuola danneggiata durante l'ultimo conflitto a Gaza, estate 2014 (Archivi UNRWA)
Se sembrano non esserci dubbi sul fatto che l'Akp (Partito giustizia e sviluppo) si confermerà il partito più votato in Turchia alle elezioni parlamentari del 7 giugno, ciò potrebbe non bastare per soddisfare le ambizioni del presidente Erdoğan e del primo ministro Davutoğlu. L'obiettivo è infatti di ottenere almeno una maggioranza di 330 seggi che consentirebbe all'attuale partito di governo di potere emendare la Costituzione e trasformare la Repubblica da parlamentare in presidenziale, previa approvazione tramite referendum. Di fatto le incognite non mancano, a cominciare dal voto dei curdi. La principale minoranza del paese – circa il 20% della popolazione – appare infatti quanto mai decisiva per l'esito elettorale. Se il partito filo–curdo Hdp riuscisse a superare la soglia del 10% ed entrare così in parlamento, sarebbe difficile per l'Akp avere i numeri per portare avanti da solo il progetto di riforma costituzionale e dovrebbe entrare in un difficile gioco di mediazioni e coalizioni. Sullo sfondo di questo scenario c'è il rallentamento economico della Turchia, che non cresce più a ritmi "cinesi" come alcuni anni fa, unito alle difficoltà del modello di sviluppo promosso dall'Akp che, secondo i sondaggi, sta perdendo una parte di consenso nel paese.
Le elezioni di giugno si configurano come l’ennesimo referendum nei confronti di Recep Tayyip Erdoğan e del suo partito che da tredici anni dominano la scena politica turca. Dopo tre vittorie consecutive, l’obiettivo del Partito giustizia e sviluppo (Akp) è di ottenere la maggioranza necessaria – 330 seggi su 550 all’Assemblea nazionale – per modificare la Costituzione e introdurre nel paese un sistema presidenziale.
Dopo tredici anni di successi elettorali, i sondaggi indicano che potrebbe esserci un calo di consensi per il Partito giustizia e sviluppo (Akp) nelle elezioni parlamentari turche del prossimo 7 giugno. Ciò si spiegherebbe soprattutto con la crescente preoccupazione degli elettori per la situazione economica del paese, dovuta all’aumento della disoccupazione (11,2% a febbraio 2015) e al peggioramento dei dati di crescita del Pil (+2,9% nel 2014, contro il +5,2% di aumento medio nel decennio 2003-2013).