A pochi giorni dall’attentato a Westminster e dalle celebrazioni dei 60 anni dei Trattati, l’Unione europea che abbiamo conosciuto sinora rischia di non esistere più. Infatti, Londra consegna oggi la notifica a Bruxelles per avviare i negoziati che la porteranno fuori dall’Ue. Anzi, nelle intenzioni della premier Theresa May, la porteranno anche fuori dal Mercato Unico, con la conseguenza di dover riscrivere ex novo i rapporti con l’Unione.
Oggi i cittadini del Regno Unito vanno al voto per rieleggere i 650 membri della House of Commons, l’unica camera elettiva del sistema britannico. A meno di due anni dalle ultime elezioni e a quasi uno dal referendum su Brexit, la premier Theresa May ha indetto a sorpresa il voto anticipato motivandolo con la necessità di dare al paese – oggi scosso dagli attentati di Manchester e Londra – una leadership “forte e stabile”, proprio in vista dell’avvio dei negoziati per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.
Matt Singh è l’unico analista di trend elettorali che nel 2015 alla vigilia del voto andò controcorrente pronosticando una chiara vittoria dei conservatori tale da garantire a David Cameron, allora primo ministro, la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni. Fu una voce inascoltata nel deserto.
Si era capito da tempo che la questione Brexit rischiava di finire in uno scontro tra l’Unione europea e il governo inglese che, nelle intenzioni di Theresa May, dovrebbe uscire parzialmente rafforzato e pronto alla madre di tutte le battaglie con Bruxelles dopo le elezioni di oggi.
Le implicazioni di Brexit per l'Italia vanno valutate sia dal punto di vista economico che, in maniera più rilevante per il nostro paese, anche politico.
Il ventesimo anniversario del massacro di oltre 8000 musulmani da parte delle truppe serbo-bosniache a Srebrenica, in Bosnia–Erzegovina, è stato caratterizzato da momenti di violenza e di tensione, che si oppongono ai desideri di pace della comunità internazionale. Il processo di pacificazione nell’area balcanica, infatti, dopo le guerre degli anni Novanta, generate dal processo di decomposizione della Jugoslavia, fu lento, difficile, complicato.
Le elezioni politiche del 7 maggio nel Regno Unito rappresentano un momento di svolta nella storia del paese. Non solamente perché dopo decenni di stabilità politica, fondata sull'alternanza al potere di conservatori e laburisti, il voto potrebbe aprire la strada a scenari di ingovernabilità, ma anche perché gli storici parametri della politica estera britannica appaiono oggi affievolirsi, a cominciare dalla special relationship con gli USA. Londra si confronta con l'appannamento (o quantomeno con un diverso modo di esercitare la leadership) del tradizionale alleato americano; allo stesso tempo trova estremamente difficile far convergere la propria politica estera all'interno di quella dell'Unione Europea verso cui sembra prevalere un crescente sentimento di distacco.
Tra pochissimi giorni i cittadini britannici saranno chiamati alle urne per rinnovare la Camera dei Comuni, in un clima reso incertissimo dal palese indebolimento della morfologia politica tradizionale imperniata sul binomio Conservatori-Laburisti con una presenza altalenante dei Liberal Democratici.
L'attenzione della stampa e della opinione pubblica internazionali per il referendum scozzese conferma l'importanza della consultazione di oggi non solo per il futuro della Scozia e del Regno Unito, ma anche dell'Europa, della comunità euro-atlantica e dell'assetto geopolitico globale.
Mentre si stava votando per le elezioni europee in Gran Bretagna, il panorama politico appariva largamente condizionato dalla tendenza euroscettica, incarnata dallo UK Independence Party (UKIP), diretto da Nigel Farage, il quale ha saputo coinvolgere in modo crescente l’opinione pubblica britannica, nel corso degli ultimi anni. Quanti saranno i parlamentari europei che siederanno a Bruxelles e che rappresenteranno lo UK Independence Party?
È opinione comune tra gli analisti che un intervento militare internazionale in Siria destabilizzerebbe il vicino Libano. Ma viene subito da obiettare che il Libano è già destabilizzato. Il devastante scontro tra Assad e i suoi oppositori ha abbracciato il Paese dei cedri da oltre un anno. Da quando, era il maggio 2012, si registrarono i primi episodi di violenza a Beirut, ma soprattutto a Tripoli, roccaforte sunnita nel Libano del nord, quindi confessionalmente vicina alle posizioni anti-Assad.
Washington e Londra sembrano determinati ad attuare in tempi brevi azioni militari contro il regime di Bashar Assad anche in assenza di prove documentate dagli esperti dell’Onu presenti a Damasco circa l’impiego su vasta scala di armi chimiche da parte delle forze lealiste siriane. Più che sui responsi dei team del Palazzo di Vetro gli anglo-americani sembrano affidarsi ai report dell’intelligence, in stretto contatto con i servizi d’informazione israeliani e che hanno già indotto l’Amministrazione Obama ad accusare Damasco.