Ieri Donald Trump ha tenuto il suo primo discorso al Congresso, per l’occasione riunito in seduta comune. È un'istituzione del cui appoggio il nuovo presidente degli Stati Uniti avrà sempre più bisogno, passato il primo mese dall’insediamento durante il quale ha fatto ampio uso di ordini esecutivi.
La polarizzazione del sistema politico statunitense è da tempo pienamente penetrata all’interno del Grand Old Party (GOP). L’ascesa del movimento del Tea Party come reazione dei conservatori alla crisi economica aveva già fatto rilevare una prima scossa sismica tra le fila dell’establishment repubblicano fin dal momento dell’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama nel 2009.
L'ultimo dibattito tra i candidati repubblicani per le elezioni presidenziali del 2016 ha preso in esame le scelte di politica estera degli USA nel caso di vittoria del partito. Se la questione principale riguarda il contenimento dell'avanzata dell'IS, quali sono le possibili soluzioni? Dalla "no fly zone" proposta da Jeb Bush a una collaborazione più stretta con Mosca suggerita da Trump, le idee sembrano abbondare, ma allo stesso tempo sottolineano la mancanza di una linea univoca per un tassello - la politica estera - in assoluto fondamentale per gli Stati Uniti.
Sarebbe sufficiente prendere in esame le poche settimane intercorse tra il blocco delle attività amministrative del governo statunitense (shutdown) nella prima metà di ottobre e il nuovo, rapido e conciliante accordo bipartisan sul budget federale di dicembre per comprendere come la non-strategia del Grand Old Party (Gop), i cui membri più “radicali” in ottobre avevano minacciato persino il default del paese, abbia imposto un energico cambio di rotta al partito in vista di un 2014 che chiamerà alle urne i cittadini americani per le elezioni di mid term.
Dalla mezzanotte del primo ottobre scorso il governo federale degli Stati Uniti ha interrotto le proprie attività non essenziali, chiudendo di fatto alcuni dei propri uffici. È l’effetto del mancato accordo sul bilancio per il nuovo anno fiscale, che il Congresso americano avrebbe dovuto raggiungere entro il 30 settembre scorso. Ma c’è un’altra data segnata in rosso sull’agenda di Obama: se entro il 17 ottobre il Congresso non raggiungerà l’accordo sull’innalzamento del tetto del debito, il rischio è che gli Stati Uniti facciano default. È un braccio di ferro, quello che vede impegnati Obama e i Repubblicani, che riflette la pericolosa polarizzazione della scena politica americana e che sta tenendo in ostaggio un intero paese. Le conseguenze di questo scontro politico travalicano i confini degli Stati Uniti e si riflettono sulle relazioni con i loro partner. In gioco, ci sono la credibilità degli Usa a livello internazionale e la possibilità di continuare a esercitare quel ruolo di leader al quale, nonostante palesi difficoltà, non sembrano pronti a rinunciare. (...)
Diceva bene Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, qualche giorno fa, a proposito della scelta di Obama di smettere di fumare, che ha trovato ampio spazio sui rotocalchi americani: «Looks like Obama picked the wrong presidency to give up smoking».
Lo “spegnimento” di tutte le attività federali non essenziali, firmato da Obama lo scorso 1° ottobre, rappresenta la terza grave crisi politica attraversata dagli Stati Uniti nel 2013.
Con ogni probabilità, nemmeno il 2013 sarà, per Barack Obama, l’anno dell’auspicato “change”. Piuttosto, il braccio di ferro con il Congresso a maggioranza repubblicana intorno al tema del tetto del dedito federale – che dal primo ottobre ha portato allo “shutdown” di una lunga lista di servizi e alla messa in aspettativa di quasi un milione di dipendenti pubblici – sembra rappresentare l’ennesimo momento di difficoltà di un presidente fino a oggi incapace di soddisfare le attese (forse eccessive) sollevate all’epoca della sua elezione.
Negli ultimi anni, non è un mistero come la politica economica della Cina abbia puntato sulle esportazioni secondo un modello di sviluppo che metteva in secondo piano il consumo interno. Si è trattato di una scelta largamente condivisa nel Partito Comunista dato che uno dei maggiori detrattori di questa scelta, l’ex “principino rosso” Bo Xilai, è caduto ormai in disgrazia.
Le nomine di John Brennan a direttore della Cia e Chuck Hagel al Pentagono, fanno supporre una militarizzazione della difesa e della sicurezza? E, in caso positivo, come potrebbero influenzare le prossime decisioni americane?
La trentennale alleanza tra il Partito Repubblicano e l’elettorato cubano-americano, inaugurata all’inizio degli anni Ottanta dall’amministrazione di Ronald Reagan, sembra essere giunta al termine[1].
Le elezioni presidenziali del 2012 hanno confermato una tendenza che si era già manifestata nella precedente tornata elettorale: il sostegno dei cubano-americani al Gop si sta riducendo, tanto che la comunità della Florida parrebbe dividersi in parti uguali tra i due principali partiti del sistema politico statunitense.