Lungi dall’essere una nuova primavera o la continuazione del movimento popolare che nel 2009 è sceso in piazza per protestare contro la rielezione di Ahmadinejad, le proteste che dal 28 dicembre scorso scuotono l’Iran hanno un carattere peculiare. Dalla città nord-orientale di Mashhad – sede del santuario dell’ottavo Imam Reza e fulcro del conservatorismo religioso – le proteste si sono poi diffuse in maniera capillare su tutto il territorio, delineandosi come rivolte della periferia anche quando condotte nei centri delle principali città.
In queste settimane di colpi di scena e dichiarazioni contraddittorie il mondo ha seguito le vicende siriane con un’attenzione mai avuta prima in questi due lunghi anni di conflitto civile. L’attacco americano, che sembrava ormai imminente, si è improvvisamente trasformato in un inedito accordo a tre – regime siriano, Stati Uniti e Russia con la supervisione delle Nazioni Unite – riguardante la distruzione dell’arsenale chimico di Bashar al-Assad entro la metà del 2014.
C’è chi parla di “sorpresa” commentando il risultato emerso dalle urne nella tornata elettorale appena trascorsa.