Dall’8 maggio 2018, data ufficiale di uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), si sono susseguiti molteplici annunci, scadenze e provvedimenti legati alla possibilità di intrattenere relazioni commerciali con Teheran.
Il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa) stilato e poi annunciato il 14 luglio 2015 a Vienna e il successivo via libera del 21 gennaio 2016 alla rimozione progressiva delle sanzioni all’Iran, dato dall’Iaea (International Atomic Energy Agency), colloca sicuramente Teheran in una nuova, rafforzata posizione, in grado, potenzialmente nel medio periodo, di modificare gli equilibri dell’area del Golfo Persico e della regione del Medio e Vicino Oriente.
Se la relazione Cina-Iran avesse bisogno di un simbolo che la rappresentasse, l’arrivo di un treno carico di merci a Teheran dopo quattordici giorni di viaggio da Yiwu – città, tra le altre cose, nota per essere la sede delle maggiori fabbriche di decorazioni natalizie al mondo – ben si presterebbe.
L’Unione Europea è stata protagonista dei negoziati sul dossier nucleare sin dal 2003, quando Francia, Gran Bretagna e Germania (anche noti come gli E3) hanno deciso di mediare tra la comunità internazionale e Teheran, nel tentativo di trovare una soluzione pacifica alla spinosa questione del programma nucleare iraniano.
La concezione del pensiero strategico iraniano, ormai alla sua terza evoluzione dalla rivoluzione che nel 1979 provocò la caduta della monarchia e l’inizio della Repubblica Islamica, ha sempre poggiato su un pilastro concettuale immutabile nel tempo; la minaccia regionale rappresenta la prima e più concreta forma di pericolo per gli interessi politici ed economici iraniani e deve conseguentemente essere fronteggiata con l’adozione di un’adeguata e credibile strategia.
Russia’s military intervention in Syria at the end of September 2015 undoubtedly strengthened and sustained the Bashar Al-Assad regime. For the first time since the height of the Cold War Russian military personnel were actively involved in the Middle East as a combatant force with significant political leverage to counterbalance the roles of Saudi Arabia and Turkey in the Syrian conflict and thus the wider Middle East.
Esistono molti aggettivi che possono qualificare l’accordo raggiunto a Vienna lo scorso 14 luglio da Iran e P5+1. “Storico” è uno di questi, se si pensa a quanto sia ancora accesa, perlomeno nella retorica di certi ambienti politici, l’ostilità tra Iran e Stati Uniti, innescata trentasette anni fa da una rivoluzione che ha fatto dell’ostilità al “grande Satana” una delle proprie pietre fondanti. Si tratta poi di un accordo che ha rappresentato anche e soprattutto una vittoria della diplomazia, come ha ricordato il Segretario di stato Usa John Kerry. Decenni di ostilità, minacce e tensioni che non sfociano in guerra aperta ma vengono affrontati attorno a un tavolo, anche al prezzo di lunghe ed estenuanti trattative. Un’intesa, ancora, che è nata come una scommessa dell’amministrazione Obama e che è ora divenuta promessa di un nuovo inizio: quel “nuovo inizio” nelle relazioni con l’Iran invocato dal presidente statunitense nel lontano 2009 e che a Teheran è stato accolto con cauto pragmatismo. Ma, più di tutto, si tratta di un accordo da proteggere: dalle opposizioni interne ai paesi firmatari, certo, ma anche da quegli attori regionali che non hanno mai fatto segreto della propria ostilità nei confronti di un’intesa che per forza di cose prelude a una reintegrazione di Teheran nel consesso delle nazioni e a una ridefinizione degli equilibri nell’area mediorientale.
L’accordo concluso martedì scorso ha registrato la forte opposizione fino all’ultimo di una larga fascia del panorama politico iraniano.
L’accordo raggiunto a Vienna sulla delicata questione del nucleare iraniano apre, per gli Stati Uniti, scenari complessi e dalle implicazioni ramificate. Il semplice fatto che, pur con tutte le difficoltà che hanno punteggiato il negoziato, si sia giunti a questo risultato rappresenta una tappa importante per due interlocutori che dalla rivoluzione del 1979 avevano improntato le proprie relazioni su un’ostilità dichiarata, mai realmente scalfita dalle rade e diffidenti aperture registrate.
La maratona negoziale senza precedenti che ha condotto all'intesa sul Piano d’azione congiunto globale sul nucleare iraniano conclusasi a Vienna conferma che in diplomazia la professionalità e la fiducia reciproca contano e possono fare la differenza. Attraverso la faticosa trattativa è stato abbattuto un decennale muro di ostilità, creatosi in particolare tra Washington e Teheran, aprendo così la strada a possibili ulteriori convergenze.
Quando alla fine del 2011 ‘Ali ‘Abd Allah Saleh fu costretto a lasciare il potere che deteneva da 33 anni e ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, suo vice da 16 anni, ne prese il posto, sanzionato dalle elezioni del 2012, parve ai più che anche per lo Yemen, liberatosi come Tunisia, Egitto e Libia del proprio autocrate, s'inaugurasse una feconda primavera.
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