Dopo un avvio d’anno positivo, con gli spread ritornati sotto i livelli di guardia e la volatilità sui mercati finanziari ridotta a valori che non si vedevano dalla crisi di Lehman Brothers, l’Europa sembra di nuovo sotto scacco.
Non passa giorno senza che la Germania venga criticata dalla stampa europea: incurante dei suoi vicini e insensibile alla crescita. La cancelliera Angela Merkel è stata colpevolmente lenta a capire la gravità della crisi. Solo dopo angosce e dubbi si è arresa all’idea di salvare la Grecia, aiutare il Portogallo e l’Irlanda, creare e poi rafforzare il fondo di stabilità europeo (noto con l’acronimo in-glese Esm). La lentezza tedesca ha fatto probabilmente molti danni e ha aumentato purtroppo i costi della crisi.
Il fallimento (già avvenuto) dello stato greco, l’ingovernabilità del paese sancita dalle urne e la pro-spettiva della sua uscita dall’euro evocano lo spettro del “contagio”.
Sull’eventuale uscita della Grecia dall’euro ci sono tante opinioni tra i diversi Paesi e tra le diverse istituzioni su che cosa potrebbe accadere.
Qualche studioso non particolarmente originale pare abbia avvistato un nuovo spettro aggirarsi minaccioso sull’Europa. Si tratterebbe, secondo i “bene informati”, di una strana forma di tecno-populismo nata in alcuni paesi dell’Europa mediterranea e destinata a diffondersi, più o meno lentamente, in tutto il continente. Addirittura, gli avvistatori/studiosi più arditi ne hanno intravisto alcune tracce anche sull’altra sponda dell’Atlantico, soprattutto, ma non solo, negli Stati Uniti.
Da qualche mese a questa parte il primo ministro ungherese Viktor Orban è sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale per iniziative di governo che appaiono a molti come una pericolosa deriva autoritaria. Trionfatore nelle elezioni del 2010 con il 58% del voto popolare e due terzi dei seggi in parlamento, ha messo in cantiere una serie di misure legislative (più di trecento in meno di due anni) destinate a imprimere una svolta radicale nel cammino dell’ancora fragile democrazia del suo paese.
Che differenza corre tra un politico e un tecnico? Meglio, tra la politica fatta da un politico e quella fatta da un tecnico? Come spessissimo capita, dipende da dove guardi. A prima vista: un politico è uno che pensa per prima cosa alle possibili conseguenze elettorali del suo operato. Di contro, un tecnico che fa politica compie la scelta che gli pare più appropriata senza curarsi delle ricadute elettorali.
La crisi greca sta mostrando nel modo più eclatante le debolezze dell’Europa. A cominciare dalle responsabilità della Grecia stessa. È evidente che la situazione debitoria del paese è dovuta all’atteggiamento fraudolento e irresponsabile dei due partiti che si sono succeduti al governo di Atene nel decennio precedente, i socialisti del Pasok (Partito Socialista Ellenico) e i conservatori di Nuova Democrazia.
Da un punto di vista “tecnico”, quello di Lucas Papademos non è un governo tecnocratico. A differenza del governo Monti, infatti, non è composto da persone esterne al mondo politico ingaggiate in virtù delle qualifiche accademiche o professionali loro attribuibili. Il governo Papademos non è che la prosecuzione dell’ultimo governo di George Papandreou, con alcuni innesti di parlamentari non di primo piano di Nea Dimokratia e del partito nominalmente ultranazionalista di Georgios Karatzaferis.
Per fronteggiare gli effetti della crisi economica cresce la tendenza ad attribuire funzioni di governo ai “tecnici”, che inevitabilmente ridimensionano il ruolo e la visibilità dei partiti politici. Governi guidati da tecnici sono al lavoro in Italia e in Grecia, sostenuti da coalizioni politiche trasversali. Ma ancora più importante è il ruolo della “troika” formata da Commissione europea, Bce e Fmi che svolge un ruolo da “supergoverno”, commissariando di fatto le politiche economiche e sociali dei paesi più in difficoltà dell’Eurozona.
I risultati del vertice di Bruxelles di lunedì 30 gennaio sono rilevanti per l’Italia, che li ha non poco influenzati. La posizione del nostro paese è stata fra quelle determinanti nell’evitare che il “fiscal compact” che è stato varato contenesse clausole inutilmente severe e rigide. Gli obblighi di equilibrio del bilancio pubblico e le clausole di correzione semi-automatiche degli squilibri sono formulati in modo da tener conto della fase ciclica, e quindi del rallentamento del gettito fiscale causato da quello del Pil, anche in seguito a politiche restrittive.