Intervista di Arturo Varvelli, ISPI Research Fellow
Subito dopo il ritrovamento dei corpi dei tre giovani coloni rapiti il 12 giugno, in vasti strati dell’opinione pubblica israeliana si è fatta largo la richiesta di un intervento punitivo nei confronti di Hamas, ritenuta responsabile dell’accaduto. Contrariamente a molte aspettative, il governo di Benjamin Netanyahu ha lasciato trascorre i primi giorni senza avviare una vera e propria risposta militare che solo ora sembra acquisire maggior credito. Abbiamo chiesto a Vittorio Dan Segre, quanto i mutamenti dello scenario politico interno israeliano possano aver determinato questa situazione.
Quali elementi possono spiegare la tardiva risposta di Israele dopo il ritrovamento dei corpi dei tre coloni?
Innanzitutto bisogna dire che la cattura dei responsabili dell’assassinio del ragazzo palestinese rappresenta un vero “momento pilota” in questa crisi e dimostra la volontà israeliana di fare vera chiarezza sulla vicenda. A parte ciò, la decisione d’Israele di ritardare un eventuale intervento è dovuta principalmente allo stato di confusione che regna nel governo israeliano. Ci si trova davanti a un’evidente mancanza di chiarezza negli scopi di politica estera e militare a causa soprattutto di una dirigenza che privilegia considerazioni egoistiche di politica interna anziché prediligere quelle d’interesse nazionale. Mai in passato la dirigenza israeliana ha avuto tanti “assi nella manica da giocare”: il nemico è sempre lo stesso, ma appare certamente indebolito; Israele diverrà presto indipendente dal punto di vista energetico e la sua potenza militare è cresciuta. Tuttavia, il governo appare sempre più incapace di trattare con la minoranza arabo-israeliana e dimostra una debolezza profonda, oserei dire una vera e propria crisi d’identità: sempre più profonde sono infatti le divisioni tra religiosi e laici, tra ricchi e poveri, tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba, con quest’ultima sempre più consapevole della propria identità.
Come sta mutando il piano politico interno d’Israele?
La terza Intifada non è combattuta sul terreno ma sullo spazio politico dell’immagine. E qui la debolezza d’Israele è totale: il paese deve ripensare la sua capacità di presentare i propri diritti e doveri, ma questa impellenza divide i partiti, incapaci di dire cosa è realmente Israele. Certamente bisognerà “tener duro” sino al 2016 quando vi saranno nuove elezioni e si spera possa delinearsi un quadro politico che favorisca una maggiore chiarezza su questo fondamentale aspetto.
Dal lato dell’opinione pubblica si parla di un crescente radicalismo. Qual è la sua posizione?
In realtà quello di un’opinione pubblica in preda agli umori degli ortodossi mi pare più un elemento folkloristico molto mediatico che sostanziale e prioritario. Una gran parte dei religiosi mantiene atteggiamenti piuttosto razionali e desidera la pace, e gli elementi ultra-ortodossi sono compensati dal peso crescente della minoranza araba, che appare sempre più critica nei confronti del governo, e dai palestinesi che vivono nelle zone occupate. Una situazione questa che nel futuro avrà un peso politico e morale sempre maggiore in Israele.
Vittorio Dan Segre, diplomatico, scrittore e giornalista israeliano di origine italiana. È professore emerito di Pensiero politico ebraico presso l’Università di Haifa.