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Beirut Calling

Inviato da ISPI il Mar, 25/08/2015 - 08:45
L'emergenza rifiuti rischia di trasformarsi nella miccia del rancore sociale in Libano
25 Agosto 2015

Non è mai semplice raccontare il Libano, tanti sono i fili da riprendere, tanti i nodi ingarbugliati da provare ad allentare. Lo stesso vale per quello che sta succedendo in questi giorni.

Sabato 22 agosto decine di migliaia di persone si sono radunate nel centro di Beirut - quel centro in cui le cicatrici aperte della guerra civile (1975-1990) sono ancora visibili tra palazzi moderni, pretenziosi e senza storia – per protestare contro la scellerata gestione dei rifiuti nella città, degenerata questa estate in una crisi ecologica di seria portata.

Un’iniziativa dal basso, trasversale rispetto a tutte le differenti etichette “confessionali” (cristiani contro sunniti contro sciiti) con cui molto spesso si cerca inadeguatamente di leggere il Medio Oriente.  La protesta si raccoglie intorno allo slogan Tol3et Re7tkom, “voi puzzate”. Il riferimento è a tutta una classe politica corrotta che alimenta lo scontro confessionale per i propri scopi di potere, oltre a incoraggiare a proprio vantaggio un sistema di privatizzazioni che anche il più appassionato sostenitore del libero mercato e dello stato minimo farebbe molta fatica a difendere.

Chi è stato in Libano e a Beirut sa bene che ogni giorno l’elettricità manca per tre ore. Un taglio programmato e quotidiano. Per non parlare dei giorni di pioggia o, peggio ancora, dell’estate, quando l’elettricità può mancare anche per sei, sette, otto ore di fila. L’unica soluzione è acquistare a caro prezzo un generatore. D’estate anche l’acqua può venire meno, in un Paese in cui la questione idrica non dovrebbe preoccupare se gestita bene. Tutto si risolve dotandosi di taniche. Da fornitori privati, ovviamente. A chi invece non si può permettere tutto ciò non restano che indignazione e frustrazione.

Il Libano è un Paese sempre sull’orlo di qualcosa. Le vicende dell’estate 2015 portano l’indignazione e la frustrazione in piazza a Beirut. Dopo anni di proteste, la discarica di Na’ame, che serve Beirut e le zone limitrofe, chiude a seguito dell’intervento di attivisti e residenti. Na’ame sarebbe dovuta essere una soluzione temporanea per il problema dei rifiuti, ma ha operato per oltre 18 anni, con un impatto non trascurabile per l’ambiente e la popolazione. Quasi contemporaneamente scade il contratto di Sukleen, la società privata – legata alla famiglia Hariri – che ha in gestione la raccolta dei rifiuti. In assenza di un sito alternativo, a partire dal 19 luglio l’immondizia inizia ad accumularsi per le strade: l’odore è insopportabile, l’inquinamento si impenna e nubi di diossina si levano dai cumuli di rifiuti cui viene dato fuoco.

A poco a poco i beirutini iniziano a protestare di fronte alla sede del parlamento contro una politica che non si occupa della cosa pubblica, contro l’operato della Sukleen, accusata di applicare tariffe troppo elevate e di sfruttare la chiusura di Na’ame per ottenere il rinnovo del contratto di gestione. Le iniziative si moltiplicano fino alla manifestazione di massa del 22 agosto, in cui al grido di a-sha’b iurid isqat al-nizam ("Il popolo vuole abbattere il regime", lo slogan simbolo delle Primavere arabe) cittadini di Beirut rivendicano a gran voce dignità, cambiamento politico e adeguate politiche pubbliche. Ossia la fine di un sistema feudale di foggia moderna, nascosto dietro la maschera delle questioni confessionali.

Si tratta di una manifestazione pacifica, ma il sopraggiungere di alcuni vandali e agitatori induce a intervenire le forze dell’ordine, che ricorrono massicciamente a manganelli, idranti e lacrimogeni. Le stesse scene di ripetono domenica, quando i manifestanti si ripresentano nel centro della capitale. Al momento i feriti sono circa una settantina, diverse persone sono state arrestate. Una terza manifestazione era prevista per lunedì 24 agosto, ma gli organizzatori di Tol3et Re7tkom hanno deciso di posticiparla vista la criticità della situazione.

Nel frattempo, il dibattito è aperto sulle responsabilità circa la repressione delle proteste, giudicata eccessivamente violenta da media e società civile. “La violenza non è il modo di rispondere a una manifestazione pacifica né a richieste sociali basilari” ha dichiarato Nadim Houry, vicedirettore della divisione Medio Oriente e Nord Africa di Human Rights Watch. Complessa è anche la questione dei vandali che avrebbero scatenato la reazione delle forze dell’ordine. Sono infatti molti a ritenerli degli infiltrati affiliati a diversi gruppi di potere, espressamente mandati per fare precipitare la situazione e oscurare l’importanza delle richieste dei manifestanti.

Non è possibile esprimersi al momento sugli sviluppi futuri. Secondo alcuni la protesta avrebbe già perso slancio, piegata dalla dura repressione, dall’assenza di una forte struttura organizzativa e dalla molteplicità delle richieste e delle istanze in gioco. Ma il Libano è complicato, difficile dire se tirando un filo si scioglierà un nodo o se ne creerà un altro ancora.

 

 

Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale

 

Clara Capelli (@clariscap) 

 

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Tags: 
Beirut
proteste
Tol3et Re7tkom
Libano
manifestazioni

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