
Quella di Jonathan Pollard è una storia di spie. Una storia iniziata parecchio tempo fa, a metà degli anni Ottanta, ma che potrebbe vedere la propria conclusione solo quest’anno. Forse.
Questa storia inizia con un’altra figura quasi leggendaria dello spionaggio israeliano: Rafi Eltan. Una delle spie più famose della Guerra Fredda, fu responsabile del famoso piano che permise a un commando israeliano di rapire in Argentina e portare in Israele Adolf Eichmann. Più tardi, negli anni Ottanta, entrò nel circolo ristretto dell’allora ministro della difesa Ariel Sharon, dal quale sperava di ottenere il sogno di tutta la sua vita: diventare capo del Mossad. Nonostante le intercessioni del suo potente capo, Eltan non riuscì però a realizzare il suo sogno. Sharon riuscì infatti solo a fargli ottenere il ruolo di capo dell’Ufficio per le Relazioni Scientifiche (Lekem), una agenzia di intelligence minore. Ma Eltan non si rassegnò. Infranto il sogno di una vita decise di dimostrare a tutti quelli che glielo avevano negato lo sbaglio che avevano commesso. Per farlo decise di intraprendere una missione, tra le più rischiose ora come allora: spiare i segreti militari degli Stati Uniti in casa loro, attraverso uomini infiltrati nei loro apparati più sensibili. Fu così che Eltan reclutò un ebreo americano al servizio dell’intelligence della Marina Americana, Jonathan Pollard, e da lui cominciò a ottenere informazioni sempre più preziose sulle tecnologie militari statunitensi e sui paesi vicini a Israele che la CIA spiava in quel periodo. Informazioni così cruciali che i superiori di Eltan, inizialmente molto scettici e preoccupati all’idea di andare a spiare l’America a casa sua, non poterono fare a meno di confermare il loro bene placito sull’operazione.
Il gioco però non durò molto. I movimenti di Pollard destarono i sospetti dei suoi colleghi che lo denunciarono portando alla ribalta l’intera operazione. Gli americani erano furiosi, e gli israeliani lo sapevano. Pollard cercò rifugio all’ambasciata israeliana ma venne espulso e di fatto consegnato nelle mani degli americani. Siamo nel 1987 e in questo periodo un certo Benjamin Netanyahu è rappresentante di Israele alle Nazioni Unite. E frequenta parecchio l’Ambasciata. Secondo le dichiarazioni rese in seguito da Pollard Netanyahu sarebbe stato un attore attivo nella decisione di rifiutargli asilo presso le autorità israeliane. Che sia vero o meno, certamente l’attuale primo ministro di Israele negli anni successivi è stato tra i più attivi sostenitori della scarcerazione di Pollard. C’è chi dice a causa della propria coscienza sporca.
Ma ben poco il giovane politico in ascesa può fare nei mesi seguenti la sua cattura. Per evitare ulteriori danni ai rapporti con il loro alleato principale, le autorità israeliane forniscono infatti agli americani tutte le prove necessarie per incastrare Pollard, che viene condannato all’ergastolo.
Da questo momento Jonathan Pollard diventa di fatto un simbolo sia in America, dove la sua sentenza esemplare deve diventare un monito contro futuri tradimenti, sia in Israele, dove negli anni un numero crescente di persone si è attivata per il suo rilascio in quanto persona che ha servito lo stato di Israele e da esso è stata poi abbandonata.
E in effetti di Pollard in questi anni è stato detto e scritto di tutto. È stato accusato di essere un cocainomane e un bugiardo compulsivo. Oppure di essere un gretto traditore che aveva barattato i suoi giuramenti con la promessa di grandi ricompense in denaro (quando fu arrestato Pollard aveva già ricevuto dal governo israeliano 50 mila dollari e, secondo le prove fornite dagli israeliani agli americani, gliene erano stati promessi dieci volte tanti). Per altri invece l’ebreo americano Pollard è diventato il simbolo della doppia appartenenza ideale di tutti gli ebrei della diaspora. Un patriota che aveva amato il suo secondo paese talmente tanto da decidere di tradire il primo. Un tradimento che comunque non aveva danneggiato nessuno, ma che anzi aveva “aiutato gli Stati Uniti ad aiutare meglio Israele” attraverso informazioni che andavano comunque a beneficio di uno dei più grandi alleati di Washington.
È quest’ultima versione quella che ha portato negli ultimi tre decenni molti israeliani e simpatizzanti di Israele nelle piazze a manifestare per la sua liberazione. Una versione alla quale i responsabili dell’intelligence americana oppongono prove secondo le quali le informazioni ottenute da Pollard sarebbero state passate all’arci-nemico sovietico in cambio della libertà per gli ebrei russi di continuare a emigrare verso Israele. Non solo. Indiscrezioni vorrebbero la CIA convinta che Pollard fosse solo la punta dell’iceberg, e che il Mossad avesse un’intera rete di spie attiva all’interno dell’intelligence americana. Anche per questo a Pollard sarebbe stata inflitta una punizione così lunga; sarebbe stato un modo per costringere gli israeliani a parlare.
Questa totale divergenza di vedute è emersa tutte le volte in cui lo stato di Israele è riuscito a inserire la liberazione dell’ex spia come clausola all’interno di una negoziazione. La prima volta fu nel 1998, quando Clinton promise a Netanyahu la liberazione di Pollard all’interno dell’accordo del Wye River Memorandum, promessa che il presidente statunitense dovette presto rimangiarsi a causa delle forti pressioni ricevute dall’allora capo dell’intelligence americana George Tenet. Ed è stato ancora Netanyahu nel 2014 a strappare una simile promessa a un altro presidente americano, questa volta Barack Obama, in cambio della ripresa dei negoziati con l’Autorità Palestinese. Anche questa volta sia le pressioni della CIA sia la falsa partenza dei negoziati hanno sospeso qualunque scarcerazione.
Ma quest’anno le cose potrebbero andare diversamente. Nel 2015, a trent’anni dal suo arresto, scadono infatti i termini di incarcerazione per ergastolo senza possibilità di rilascio secondo la legge statunitense di quel tempo. Pollard potrà infatti essere rilasciato senza una grazia presidenziale ufficiale. Una scarcerazione che sembra quanto mai probabile e che farebbe parte del pacchetto di concessioni che gli Usa sarebbero pronti a offrire a Israele in cambio di una linea più morbida rispetto all’accordo con l’Iran. Una versione che, ovviamente, gli americani negano veementemente.
L’amministrazione israeliana starebbe già aumentando le pressioni. Ma dopo due false speranze e trent’anni passati in prigione per i servizi resi a Israele nessuno, a cominciare da Jonathan Pollard, ha voglia di farsi troppe illusioni a riguardo.
Eugenio Dacrema (@Ibn_Trovarelli)