
Una guerra non si vince solo con le armi. Soprattutto se si tratta di una sanguinosa guerra civile che si protrae da quasi cinque anni. In un conflitto del genere contano infatti altri fattori, meno ovvi e spesso meno raccontati, che hanno a che fare con le percezioni. L’immagine che una fazione riesce a dare di se stessa in confronto alle altre di fronte alla stremata opinione pubblica può infatti diventare determinante per incanalare verso di essa sostegno, reclute e lealtà.
È una lezione che il regime siriano sembra aver capito molto bene, stando a quanto riportato da Khader Khaddour del Carnegie Institute. Dall’inizio del conflitto il regime ha infatti adottato una politica volta all’uso strategico delle istituzioni statali e dei servizi da esse garantiti in modo da farsi percepire come l’unica fazione in grado di assicurare in modo credibile l’esistenza di tali funzioni anche dopo la fine del conflitto. Oltre a impegnarsi a non interrompere questa fornitura nelle zone rimaste sotto al proprio controllo – compresa l’apertura delle scuole e delle università che continuano in molti luoghi secondo i le scadenze normali – il regime ha anche proceduto alla sistematica distruzione degli edifici e delle infrastrutture necessarie per tali servizi nelle aree cadute nelle mani del nemico. Non solo. In alcune zone come Aleppo e Ghouta (area situata a nord-est della capitale), dove i ribelli avevano cercato di mettere in piedi una amministrazione e dei servizi sostitutivi, il regime ha proceduto a offensive durissime mirate alla distruzione di queste strutture civili in grado di sfidare il suo monopolio sullo stato siriano.
In alcune zone Deir-ezzor o Deraa’ il regime ha anche scelto di continuare a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici rimasti nelle zone occupate dai ribelli. Queste persone devono perciò recarsi ogni mese presso i quartieri sotto il controllo del regime per ritirare i loro stipendi e per poter usufruire di servizi di base come prestazioni sanitarie. In molti casi questo ha portato gran parte delle popolazioni nelle aree contese a mantenere una sostanziale fedeltà verso il governo di Assad e a sostenerlo nonostante la repressione violenta del dissenso portata avanti in questi anni. A Deir-ezzor il consenso della popolazione, comprese le tribù sunnite locali, è stato finora determinante perché il regime mantenesse il controllo sulla città nonostante molti quartieri continuino a essere occupate da fazioni ribelli.
In alcuni casi si è inoltre assistito a un dislocamento interno verso le zone occupate dal regime. Molte persone vanno infatti in cerca di luoghi dove servizi minimi come assistenza sanitaria e amministrazione della giustizia siano forniti. Dopo cinque anni di saccheggi impuniti e sofferenze ormai ben pochi prestano attenzione a chi effettivamente sia il fornitore di tali servizi. E nemmeno all’amara ironia che spesso la distruzione e la mancanza di servizi primari nelle zone in cui queste persone risiedono sono dovuti proprio alla violenta repressione del regime portata avanti con bombardamenti a tappeto e nessuno scrupolo verso infrastrutture come scuole o ospedali.
L’eccezione in questa spietata politica del governo di Damasco è quella relativa all’ISIS. L’aviazione siriana ha infatti finora risparmiato le sedi delle istituzioni create da ISIS nelle zone cadute sotto il suo controllo. Questa decisione dimostra tutta la sofisticazione della strategia del regime che punta chiaramente a fare dell’ISIS l’unica apparente alternativa al proprio potere. Una strategia che punta quindi a proiettare un’immagine che dipinga il conflitto come una scelta fra due alternative: il regime, dittatoriale ma laico, e la brutalità integralista dello Stato Islamico.
Un’immagine che ha visto però delle incrinature in questi ultimi mesi a causa della sostanziale crisi delle capacità militari del regime. Con la perdita di Idlib e il consolidamento dei gruppi ribelli del fronte meridionale intorno alla città di Daraa si è assistito a nuovi importanti esperimenti in entrambe le aree. Jaish al-Fatah, l’alleanza di formazioni soprattutto islamiste capitanata da Jabhat al-Nusra (gruppo affiliato ad al-Qaeda), ha infatti portato avanti la formazione di corti per l’amministrazione della giustizia nelle zone recentemente occupate nella regione di Idlib. Allo stesso modo gli elementi assai più moderati dell’Esercito Libero Siriano che operano sul fronte meridionale hanno proceduto all’apertura di corti locali per l’amministrazione della giustizia. Secondo Maria Sosnowsky, soprattutto il fronte meridionale sta emergendo come un esperimento senza precedenti per l’opposizione siriana. Mentre nel nord le corti di giustizia create dai ribelli rimangono frammentate e spesso sotto il controllo del gruppo locale dominante, nel sud è stato possibile creare un sistema di regole e gestione comune nonostante le numerose sigle che compongono il Fronte Meridionale, l’alleanza di forze che controlla il territorio. Il tutto è amministrato da una corte centrale composta da 16 giudici nominati dalle varie fazioni ma che cooperano in un unico sistema giudiziario. Tale sistema è basano su un mix di legge consuetudinaria, legge coranica e leggi tribali che sembra incontrare il supporto della popolazione.
In particolare, le legge coranica a cui si fa riferimento è quella codificata all’interno del UAC (Unified Arab Code), una codificazione realizzata dalla Lega Araba negli anni Ottanta al fine di garantire uno standard moderato di interpretazione. In questo le corti dei ribelli si distanziano dall’applicazione della Sharia portata avanti da ISIS, che considera vietata qualunque codificazione scritta della legge divina la quale, al contrario, deve essere applicata dal giudice secondo una stretta interpretazione letterale dei testi sacri; un uso che, oltre a prestarsi a interpretazioni molto più integraliste come dimostrato dalle immagini che ci giungono quotidianamente dall’ISIS, si presta anche a maggiore soggettività dell’applicazione della legge favorendo così possibili abusi e differenti interpretazioni da caso a caso.
Laddove le armi non bastano più è la legittimità delle istituzioni che fa quindi la differenza in un lungo e sanguinoso conflitto civile. La legittimità di dare delle regole e di farle rispettare. Max Weber considerava il passaggio da rapporti umani basati sul rapporto e il favore personale a rapporti basati su regole universalistiche la grande innovazione dello stato moderno. Sicuramente, senza pretendere che questi esperimenti possano cambiare la storia della Siria più delle armi e degli interessi locali e internazionali, forse potranno almeno portare qualche sofferenza in meno e qualche certezza in più a una popolazione piegata da cinque anni di tragedia.
Eugenio Dacrema (@Ibn_Trovarelli)