Ankara e il suo ruolo di broker nella regione

La più recente attività diplomatica di Ankara sembra prefigurare l'aspirazione a tornare ad assumere quel ruolo di mediatore e facilitatore del dialogo regionale che aveva rappresentato uno dei maggiori successi della “profondità strategica”, dottrina e pratica di politica estera che ha caratterizzato il primo decennio di relazioni internazionali del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp). Nel corso dell'ultimo quinquennio, tuttavia, tanto lo scenario regionale quanto quello interno al paese sono profondamente cambiati, e gli ostacoli alla ri-affermazione del ruolo di honest broker appaiono significativi. Ostacoli sui quali, peraltro, il prossimo referendum costituzionale non potrà che avere un impatto limitato, dando, in caso di vittoria del ‘si’, legittimazione de jure a una centralità della presidenza nella vita istituzionale e nella politica estera del paese già acquisita de facto con l'assunzione della carica da parte di Erdoğan.
Nel maggio 2011, innanzi all'avanzamento dell'ondata rivoluzionaria in Medio Oriente, l'allora ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu rappresentava efficacemente la Turchia come “intrappolata tra due storie di successo”, tra la fiducia reciproca instaurata con le amministrazioni regionali e il prestigio guadagnato tra popolazioni arabe di cui Ankara aveva “conquistato i cuori”. Questi i dividendi di un decennio circa di profondità strategica, conseguiti ribaltando il tradizionale precetto kemalista del non-coinvolgimento negli affari mediorientali attraverso una politica estera proattiva e inclusiva, che aveva assicurato alla Turchia un rango regionale senza precedenti nella sua storia repubblicana. Un rango elevato che, a sua volta, le consentiva di assumere un ruolo di mediatore rispetto ai più importanti dossier della politica regionale – dai negoziati israelo-siriani a quelli tra Israele e Autorità nazionale palestinese (2007) e tra Hamas e Fatah (2009-’11); dai negoziati tra il governo libanese e Hezbollah (2011) fino a quelli sul nucleare iraniano (2007-2010).
Mettendo in conflitto due elementi che mai prima di allora erano risultati contrapposti, i rivolgimenti regionali hanno messo la Turchia innanzi al rischio di perdere il posizionamento regionale sin lì guadagnato mentre, d'altra parte, le hanno offerto l'opportunità di capitalizzare diplomaticamente sull’estrema fluidità della congiuntura mediorientale e sul sostanziale vuoto di potere creatosi nel mondo arabo. Agendo risolutamente in quest'ultima direzione, Ankara ha tentato di chiudere la forbice tra l'elevato rango e il limitato ruolo regionale, tra il prestigio e l'influenza.
La Turchia si è fatta così sostenitrice, e per molti versi promotrice, del regime change in Medio Oriente, con ciò rovesciando un principio guida della politica estera dell'Akp: la non-ingerenza negli affari interni dei propri vicini. Un principio che, da una parte, sostanziava la promozione della "good international citizenship" del paese e, dall'altra, rappresentava un elemento cardine per una potenza di status quo, per la quale la conservazione degli assetti regionali rappresentava una forma di indiretta quanto imprescindibile tutela della propria sicurezza nazionale.
Quali che ne siano state le concause – prolungamento e approfondimento della conflittualità, sottovalutazione della resilienza dei regimi, sopravvalutazione della forza e della compattezza degli insorti, maggior coinvolgimento di attori esterni, solo per citarne alcune – il tentativo turco di espandere la propria influenza nello scacchiere mediorientale è evidentemente fallito. Al contrario, la Turchia si è trovata sempre più imbrigliata in una competizione regionale di potenza, resa più profonda e pericolosa dalla crescente contrapposizione etnica e settaria sulla quale si è giocata e ancora si gioca.
Su questo sfondo, il nuovo e apparentemente più pragmatico corso di politica estera avviato da Ankara appare la risposta a due inattese conseguenze della politica regionale successiva al 2010-2011. La prima di esse è data dal crescente isolamento nel quale la competizione di potenza in Medio Oriente aveva relegato la Turchia che, dopo aver congelato i rapporti con Israele nel 2010 a seguito dell'incidente della Mavi Marmara, aveva assistito a un progressivo deterioramento dei rapporti con la Russia e con tutti i più rilevanti attori regionali – dall'Egitto del “golpista” al-Sisi all'Iraq di al-Maliki prima e al-Abadi poi fino, evidentemente, alla Siria di al-Assad e al suo principale alleato, l'Iran. D'altra parte, la muscolare reazione al colpo di stato del luglio scorso, creando nuovi e significativi elementi di attrito con i partner euro-atlantici, ha approfondito la misura di isolamento della Turchia. Seconda e non meno rovinosa conseguenza della politica turca in Medio Oriente è stato un lampante effetto di contagio, che ha visto il paese introitare l'instabilità deflagrata ai propri confini, attraverso la recrudescenza del conflitto con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e l'emergere della minaccia terroristica di matrice islamista. Ciò, a sua volta, ha finito per riattivare un cortocircuito tra dimensione interna ed esterna della sicurezza sul cui superamento l'Akp aveva fondato buona parte delle proprie fortune regionali.
Inaugurato nell'estate del 2016 con la normalizzazione delle relazioni con Mosca e Tel Aviv, il nuovo corso di politica regionale è transitato attraverso la partecipazione al meccanismo tripartito di mediazione sul conflitto siriano, con Russia e Iran, attraverso il tentativo di riallacciare i rapporti con il governo federale di Baghdad e quello, parallelo, di fondare sul rilancio delle relazioni economiche la normalizzazione dei rapporti con l'Egitto.
Sintomatiche di un cambio di atteggiamento e di passo nelle relazioni con il vicinato, tali iniziative sono ancora troppo giovani perché possano lasciare intravedere il ritorno a un ruolo di mediatore regionale. In primo luogo, il percorso che dall’auspicabile normalizzazione delle relazioni diplomatiche con i vicini conduce al ristabilimento di un clima di reciproca fiducia non è affatto breve, come dimostra l'andamento delle relazioni con la Russia dopo la chiusura dello strappo del novembre 2015. La lunga fase di competizione e contrapposizione regionale ha attivato cioè una “spirale di sfiducia” tanto difficile da interrompere quanto precludente ogni reale potenzialità di mediazione – specie in ragione della persistenza di non secondari piani di competizione con i propri vicini.
In secondo luogo, la Turchia odierna è ben più debole di quella cui era riuscito di affermare un ruolo di broker regionale. È più debole economicamente, avendo da tempo lasciato i tassi di crescita da record del decennio scorso, ed è più debole diplomaticamente, essendosi ampliata l'asimmetria di potere che la divide dagli altri attori pivotali nello scenario mediorientale, in primo luogo dalla Russia – di cui oggi rappresenta non più di un junior partner. Le minori risorse di potere a sua disposizione rendono dunque la capacità negoziale e di mediazione notevolmente più ridotta che in passato.
Infine, ma non da ultimo, il potere negoziale turco è ridimensionato dalla considerazione che l'attuale fase di attivismo diplomatico assume connotazioni eminentemente reattive e difensive. Muove cioè da vulnerabilità piuttosto che da punti di forza, e ciò contribuisce a sottrarre credibilità a quel ruolo di attore super partes che risulta imprescindibile – in mancanza di più efficaci risorse di potere, anche coercitivo – per affermare un ruolo di mediatore. L'esempio più evidente di tale dinamica deriva dalla spinosa questione curda, che si intreccia strettamente con i nodi della politica regionale. Nel corso degli anni Duemila, la soluzione sia pur parziale del conflitto e la de-securizzazione della problematica avevano costituito la premessa – e per molti versi lo strumento – per il miglioramento delle relazioni con i vicini e per l'affermazione di un rango di broker super partes. Al contrario, oggi rappresenta uno degli obiettivi chiave e più urgenti dell'iniziativa diplomatica, sottraendo così ulteriori margini di successo alla riproposizione di un efficace ruolo di mediatore e facilitatore del dialogo nello scenario mediorientale.
Carlo Frappi, Università Ca' Foscari e ISPI Associate Research Fellow
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