In cerca di stabilità: le sfide dell'Iraq dopo le elezioni

L’Iraq inizia il 2022 alle prese con uno degli ostacoli più difficili nel suo processo politico: la formazione di un nuovo esecutivo. Dopo mesi di contestazioni sui risultati elettorali da parte delle fazioni politiche più sfavorite del voto, il 27 dicembre la Corte suprema federale irachena ha finalmente ratificato i risultati delle elezioni, sancendo l’inizio ufficiale del processo di formazione dei principali organi politici dello stato. Nonostante il nuovo Consiglio dei rappresentanti (il parlamento iracheno) si sia riunito in prima seduta il 9 gennaio 2022 per l’elezione del proprio presidente e dei suoi due vice, il processo di formazione del nuovo esecutivo si presenta in salita e probabilmente saranno necessari altri mesi prima che un primo ministro e un gabinetto possano prestare giuramento. Più lungo sarà il processo di formazione del gabinetto, più ardue saranno le sfide che il paese sarà chiamato ad affrontare nel corso del nuovo anno, in primis la ripresa economica, il rafforzamento della campagna vaccinale in contrasto all’epidemia di Covid-19 e la questione della scomoda presenza di truppe statunitensi nel territorio iracheno.
Quadro interno
Il 10 ottobre 2021 si sono tenute le seste elezioni legislative anticipate, fortemente volute dal primo ministro Mustafa al-Kadhimi sin dal suo insediamento. Il voto è stato caratterizzato da uno scarso livello di partecipazione, di appena il 41% degli aventi diritto[1], il valore più basso della recente storia irachena. Questo dato manifesta il crescente sentimento di sfiducia da parte della popolazione nei confronti della classe politica chiamata a rappresentarla. La tornata (la prima che ha visto la presenza di osservatori internazionali inviati dall’Unione europea e dall’Onu) è stata in gran parte boicottata da quella fascia di cittadini che, a partire dai moti di protesta dell’ottobre del 2019, aveva chiesto una radicale riforma del sistema politico emerso all’indomani della caduta di Saddam Hussein e che ha visto nella modalità con cui si sono tenute le ultime elezioni la vanificazione delle proprie speranze di cambiamento.
Quello che emerge dalle elezioni è ancora una volta un sistema politico frammentato, il quale contribuirà a rendere più complesso il già farraginoso processo di formazione del governo. I risultati elettorali vedono sostanzialmente la formazione di tre blocchi, con il movimento sadrista, la corrente guidata dal leader sciita Moqtada al-Sadr, come prima forza in parlamento. La formazione del chierico sciita si è infatti aggiudicata 73 seggi (su un totale di 329), in aumento rispetto ai 54 della tornata precedente. L’altro grande blocco è il cosiddetto “Quadro di coordinamento” delle forze sciite, composto da partiti sciiti che si oppongono ad al-Sadr, tra cui: la coalizione per lo Stato di diritto dell’ex primo ministro Nuri al-Maliki (33 seggi); l’Alleanza Fatah di Hadi al-Amiri (17 seggi), ala politica dell’organizzazione Badr affiliata alle Forze di mobilitazione popolare (Pmf); la colazione Aqd al-Watani guidata da Falah al-Fayyad (4 seggi), anch'essa legata alle Pmf e all'Iran; e l’Alleanza della vittoria dell’ex primo ministro Haider al-Abadi (4 seggi) – per un totale di 64 seggi al momento della pubblicazione. Infine, vi sono alcuni partiti chiave, come la coalizione sunnita Takaddum guidata dal ri-eletto presidente del parlamento iracheno, Mohamed al-Halbousi, che ha ottenuto 37 seggi, e il Partito democratico curdo (Kdp) di Masoud Barzani, con 31 seggi.
Da questo quadro emerge come le formazioni politiche legate all’Iran, tradizionalmente le più influenti nella storia recente del paese, siano quelle che abbiano perso il maggior peso all’interno del parlamento, totalizzando molti meno seggi rispetto alla tornata precedente – con l’eccezione del partito Da’wa di al-Maliki. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda la coalizione Fatah, la quale si è aggiudicata solo 17 seggi – in forte calo rispetto ai 48 delle scorse elezioni, quando era emersa come il secondo maggiore blocco in parlamento. Un simile sviluppo ha spinto diversi gruppi a contestare l’esito delle elezioni, organizzando grandi manifestazioni di piazza, presentando quasi 1400 ricorsi formali all’Alta commissione elettorale indipendente (in massima parte respinti) e contribuendo inevitabilmente a ritardare l’intero processo di formazione del governo. Dopo il riconteggio di decine di migliaia di schede per smentire le accuse – infondate – di brogli elettorali, l’annuncio dei risultati finali è stato dato il 30 novembre ed è stato ratificato dalla Corte suprema irachena il 27 dicembre in una sentenza che ha consentito al parlamento appena formatosi di riunirsi e di porre le basi per i negoziati per la formazione del nuovo gabinetto.
Nel corso della sua prima sessione inaugurale, tenutasi il 9 gennaio, il Consiglio dei rappresentanti ha rieletto come suo presidente Mohamed al-Halbousi, leader della coalizione sunnita Takaddum e già a capo del precedente organo legislativo. La seduta è stata particolarmente tesa e caotica e il processo di selezione – che ha portato anche alla nomina a vicepresidenti di Hakim al-Zamili di Shakhwan Abdulla, rispettivamente candidati del partito di al-Sadr e del Kdp – è stato temporaneamente interrotto da tafferugli emersi sulla questione della maggioranza parlamentare. In particolare, la sessione ha confermato la forte spaccatura tra i gruppi politici sciiti, molti dei quali hanno cercato di boicottarla senza però compromettere la nomina del presidente del parlamento[2].
Dopo questo primo passo, il Consiglio dei rappresentanti ha ora trenta giorni di tempo per eleggere il nuovo presidente, il quale dovrà poi incaricare il gruppo maggioritario in parlamento (ovvero quello che si avvale di 165 seggi su 329) di formare un nuovo governo. L’attuale premier Mustafa al-Kadhimi e il suo gabinetto rimarranno in carica durante tutto il corso di questo processo. Secondo il sistema di prassi giuridica in vigore in Iraq dal 2005, la nomina di un capo di stato è riservata a un esponente della minoranza curda. In questo ambito, l’individuazione della più alta carica dello stato sarà quindi affidata al Partito Democratico del Kurdistan (Kdp) e all’Unione Patriottica del Kurdistan (Puk), le principali forze politiche curde irachene (rispettivamente con 31 e 17 seggi). Non si esclude la possibile rielezione dell’attuale presidente Barhim Saleh, sostenuto dal Puk, mentre il Kdp ha recentemente indicato Hoshyar Zebari, ex ministro delle Finanze, come proprio candidato[3].
Per quanto riguarda la formazione del gabinetto e la nomina di un primo ministro, con tutta probabilità l’assenza di una chiara maggioranza in seno al Consiglio dei rappresentanti e la grande spaccatura nel campo sciita obbligherà le varie fazioni a lunghi processi di negoziazione nel tentativo di formare una maggioranza in possesso del numero di seggi necessari alla formazione del nuovo esecutivo (165 su 329 seggi). Questo fattore giocherà soprattutto a favore di quei gruppi che minacciano di far deragliare il processo politico minando il valore del voto e indebolendo ulteriormente la fiducia degli elettori. Nonostante la perdita di gran parte del proprio capitale politico, infatti, diversi partiti del cosiddetto “quadro di coordinamento” mantengono ancora un potente capitale coercitivo ed è probabile che faranno ricorso a questa influenza per ritagliarsi un ruolo di rilievo nella formazione del governo nonostante il numero di posti ottenuto nel Consiglio (soprattutto in termini di concessioni per cariche ministeriali di rilievo)[4].
Ne è una dimostrazione la serie di attacchi a politici e sedi istituzionali che ha contraddistinto il periodo successivo al voto. Il 7 novembre, in concomitanza con il periodo di tumulti e proteste che hanno visto anche la morte di un personaggio di spicco del gruppo politico Asaib Ahl al-Haq (Aah), il primo ministro Mustafa al-Kadhimi è stato vittima di un attentato nella sua residenza a Baghdad da cui è fortunosamente uscito indenne (come ha riferito lui stesso in un discorso rivolto alla nazione a poche ore dall’evento). Due mesi dopo, pochi giorni dalla prima seduta parlamentare, tre attacchi concomitanti nella capitale hanno colpito le sedi di quei partiti politici sunniti che, insieme al Movimento sadrista e al Kdp, hanno votato per eleggere al-Halbousi e i suoi vice al posto del principale candidato della coalizione sciita, Mahmoud al-Mashadani[5]. Nonostante nessuno di questi attacchi sia stato formalmente rivendicato, il tempismo e le modalità di esecuzione farebbero comunque puntare il dito al muqawama[6], il “fronte di resistenza” composto da milizie (tradizionalmente legate a partiti filo-iraniani) che, attraverso l’azione di gruppi minori di facciata, si oppone alla presenza statunitense nel paese dopo l’uccisione di Qasem Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis nel gennaio 2020 (e a chiunque supporti questa presenza). Applicato al contesto post-elettorale, questo fenomeno sarebbe strumentale a garantire a questi gruppi un ruolo effettivo in un governo consensuale indipendentemente dal loro successo alle urne, soprattutto in un momento in cui è necessario negoziare una coalizione.
Qualunque sia l’aspetto che prenderà la futura composizione di governo, saranno molte le sfide che il nuovo esecutivo si troverà a dover affrontare. In ambito economico, a preoccupare maggiormente è la mancata definizione del budget annuale per il 2022. Data l’improbabilità che la formazione del nuovo governo possa realizzarsi prima della fine di marzo, è altrettanto improbabile che il Consiglio disponga del tempo necessario per discutere e approvare un nuovo progetto di bilancio. Al contrario, viste le circostanze, è assai più realistico che tanto l’attuale governo quanto il prossimo continueranno a estendere la portata del bilancio vigente fino all’inizio del successivo anno fiscale. Questa prospettiva rischia innanzitutto di vanificare i buoni risultati ottenuti nel corso del 2021 in chiave economica. Lo scorso anno è stato infatti economicamente positivo per l’Iraq. Secondo quanto indicato da un recente studio della Banca mondiale, il prodotto interno lordo iracheno è infatti previsto crescere, passando dal 2,6% del 2021 a oltre il 6% nel 2022-23[7], grazie soprattutto alla ripresa dei mercati petroliferi globali. Nell’ultimo trimestre del 2021 il paese ha incrementano il proprio export energetico, con una media mensile di oltre 100 milioni di barili di petrolio (equivalente a più di 3 milioni di barili al giorno - bpd), in un momento in cui il prezzo del greggio sul mercato è cresciuto fino a 72 dollari al barile[8]. Secondo quanto recentemente dichiarato dal ministro del Petrolio iracheno, Ihsan Abdul Jabbar, un simile tasso di esportazione sarà mantenuto anche per il mese di gennaio (se non con valori lievemente in crescita), di pari passo con la graduale eliminazione delle quote di produzione Opec plus (con un notevole rientro nelle riserve della Banca centrale irachena)[9].
Nonostante questi risultati, la probabile mancanza di un budget per l’anno fiscale 2022 potrebbe essere alla base di un’eventuale inversione di rotta, oltre a limitare fortemente la capacità di azione (non solo economica) dello stato e impedendo la corretta implementazione della politica di riforme tanto necessaria al paese. Tra le necessità più pressanti per il medio-lungo periodo vi è un ripensamento della politica energetica nazionale verso le energie alternative e la diversificazione delle fonti di approvvigionamento. Nonostante l’adesione all’Accordo sul clima di Parigi, infatti, l’Iraq è oggi tra i primi paesi nella regione in materia di inquinamento ambientale. In un’ottica improntata alla transizione, Baghdad ha recentemente avviato un ambizioso piano di riforme del sistema energetico, volto a ottenere il 63% di elettricità da fonti di energia pulita entro cinque anni. In quest'ottica, nel secondo semestre del 2021 Baghdad ha siglato contratti con società internazionali specializzate nel settore delle rinnovabili per lo sviluppo di progetti nel campo dell’energia solare e la costruzione di centrali elettriche, per una capacità complessiva di 3,5 GW. Tra queste vi è la compagnia petrolifera francese Total Energies, l’emiratina Masdar e un consorzio guidato dalla norvegese Scatec. La costruzione dei suddetti impianti e il loro ingresso alla rete nazionale entro la fine del 2023 è in linea con i progetti annunciati il 27 ottobre dal ministero dell’Elettricità iracheno, Ahmed Moussa, che prevede lo sviluppo di 12 gigawatt (GW) di energia rinnovabile per il 2030[10].
Non ultimo, il nuovo governo dovrà fare i conti con la diffusione nel paese della variante Omicron e con una campagna vaccinale che stenta a raggiungere i (relativamente modesti) risultati prefissati. A inizio novembre il ministero della Salute iracheno, in partenariato con l’Organizzazione mondiale della sanità, ha lanciato una campagna di vaccinazione di massa contro il Covid-19 (fino ad allora limitata a poche categorie della popolazione) nella speranza di dare slancio al processo di diffusione del vaccino in Iraq e nella regione autonoma del Kurdistan. La campagna, che ambiva a raggiungere un tasso di copertura vaccinale fino al 40% tra la popolazione entro la fine dell’anno (equivalente ad oltre 12 milioni di cittadini di età pari o superiore a 12 anni), ha però ottenuto risultati modesti. Ad oggi, solo il 21% delle persone sopra i 18 anni ha ricevuto almeno una dose (corrispondente a circa 8,5 milioni di dosi inalate), e di questi meno del 15% ha ricevuto una seconda dose[11]. Nel mentre, l’arrivo del nuovo anno è combaciato con i primi casi confermati della variante Omicron, quasi tutti riscontrati in pazienti rientrati dall’estero[12]. Dall’inizio della pandemia, in Iraq si sono registrati oltre 2,1 milioni di casi di contagio e 24.247 decessi (al 17 gennaio) confermati[13].
Relazioni esterne
Il 9 dicembre il governo iracheno ha annunciato la fine della missione di combattimento degli Stati Uniti in Iraq[14]. Un simile risultato è il frutto di quattro round di colloqui nel contesto del cosiddetto “dialogo strategico”, avviato dal premier uscente al-Kadhimi sin della sua nomina nel maggio del 2020 con l’obiettivo di definire formalmente il ruolo degli Stati Uniti in Iraq e discutere del futuro delle relazioni economiche, politiche e securitarie tra le due parti. Nel corso dell’ultimo di questi incontri, tenutosi a Washington lo scorso 26 luglio, il primo ministro al-Kadhimi e il presidente americano Joe Biden hanno siglato un accordo alla Casa Bianca in cui è stato stabilito il termine della missione di combattimento statunitense in Iraq per la fine del 2021.
Per le autorità irachene si tratta indubbiamente di una considerevole vittoria politica, innanzitutto data la loro intenzione di allentare le forti pressioni esercitate dai partiti e dalle milizie sostenute dall’Iran che si oppongono alla presenza delle forze Usa in Iraq. Solamente nel corso del 2021, oltre 50 attacchi con razzi, ordigni esplosivi improvvisati (Ied, Improvised Esplosive Device) e droni hanno preso di mira obiettivi statunitensi in Iraq. Le tensioni si sono ulteriormente inasprite dopo le elezioni legislative di ottobre e in occasione del secondo anniversario della morte dei generali Qasem Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis, per la cui ricorrenza le forze statunitensi in Iraq e in Siria hanno dovuto respingere sei attacchi nel corso di pochi giorni.
Nonostante l’ampia campagna propagandistica voluta da Baghdad[15], sono molti gli interrogativi riguardo alle reali condizione del ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq, soprattutto sugli effettivi cambiamenti che questa transizione operativa può portare sul terreno. In Iraq oggi sono ancora presenti all’incirca 2500 soldati statunitensi, oltre agli effettivi delle forze della coalizione. Con tutta probabilità, la cooperazione tra le forze di sicurezza irachene e la Coalizione internazionale anti-Daesh è destinata a continuare a livello di consulenza, assistenza e responsabilizzazione, senza reali cambiamenti in termini di personale schierato. La Coalizione a guida statunitense ha infatti concluso le proprie operazioni di combattimento già nel corso del 2021 (ovvero in concomitanza con gli ultimi incontri bilaterali a Washington) e da allora si è principalmente concentrata su missioni di intelligence, consulenza militare, addestramento e supporto logistico alle Forze armate irachene e ai Peshmerga curdi. La decisione statunitense di non eseguire un ritiro completo del proprio personale militare – come invece è avvenuto nel corso dell’anno in Afghanistan – è giustificata dalla volontà di Washington di continuare a mantenere una presenza per contrastare la minaccia jihadista e soprattutto di limitare l’influenza iraniana sull’Iraq[16].
Da parte sua, l’Iran sta lavorando per raffreddare le tensioni in Iraq, dove i recenti attriti tra partiti politici sciiti e le azioni sovversive attribuite a gruppi di milizie a vari livelli legati a Teheran rischiano di finire fuori controllo e destabilizzare ulteriormente un paese la cui rilevanza nell’architettura degli equilibri mediorientali è fondamentale e verso cui la Repubblica islamica guarda con crescente preoccupazione. All’indomani dell’attentato al primo ministro al-Kadhimi, il capo delle forze al-Quds della Guardia rivoluzionaria iraniana, Ismail Qaani, si è recato a Baghdad in una visita inaspettata in cui ha incontrato il premier e il presidente Barham Salih. Nella capitale irachena Qaani ha espresso il disappunto della Repubblica islamica per l’accaduto, garantendo il sostegno iraniano ad al-Kadhimi ed evidenziando la necessità di preservare la stabilità e l’unità dell’Iraq (e, potenzialmente, di sviare i dubbi riguardo a un eventuale coinvolgimento di Teheran nell’azione). Egli ha inoltre messo in guardia chiunque abbia contribuito al protrarsi delle tensioni (ovvero i partiti sciiti storicamente legati all’Iran e i loro rispettivi gruppi armati), ammonendoli sui rischi di come una politica di destabilizzazione possa erodere la base del consenso residuo di cui le formazioni sciite godono — e, di riflesso, la capacità di influenza dell’Iran nel paese[17]. In un calcolo costi-benefici, Teheran sembra muoversi lungo una strategia di mediazione tra i contendenti, nella speranza (per nulla scontata) di mantenere quanto più possibile intatta la sua influenza in Iraq senza per questo vincolarsi eccessivamente a dispute interne tra le diverse fazioni del contesto politico iracheno. Il protrarsi delle tensioni in Iraq può inoltre rappresentare un possibile intralcio nei delicati negoziati per ricomporre l’accordo sul nucleare (Jcpoa) che, nonostante i risultati ancora modesti, la presidenza di Ebrahim Raisi sembra intenzionata a portare avanti.
La stabilità irachena rappresenta una questione importante anche per l’Unione europea, che in occasione delle elezioni anticipate del 10 ottobre ha inviato una missione di osservazione voluta dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza europea, Josep Borrell per mostrare la vicinanza delle istituzioni di Bruxelles ai paesi in transizione democratica. La presenza di osservatori internazionali, inviati anche dalle Nazioni Unite, ha avuto l’obiettivo di garantire equità e trasparenza all’intero processo elettorale, nel tentativo di prevenire fenomeni di frode e dissipare quei timori che hanno spinto la popolazione ad avere scarsa fiducia nel voto[18]. In termini di cooperazione in politica estera e di sicurezza, l’UE ha recentemente elogiato gli sforzi compiuti da Baghdad nel contesto alla lotta al terrorismo rimuovendo l’Iraq dalla lista degli Stati ad alto rischio di riciclaggio di denaro e finanziamento del terrorismo.
La composizione del nuovo esecutivo in Iraq è particolarmente importante anche per i singoli paesi europei. Per l’Italia, che si appresta ad assumere il comando della missione Nato (Nmi) dalla primavera 2022, ne è testimonianza la recente visita del ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano, Luigi Di Maio, in Iraq, nel corso di un tour regionale durante il quale il titolare della Farnesina ha passato in rassegna i contingenti militari italiani stanziati nelle basi di Camp Singara (nei pressi di Erbil, nel Kurdistan iracheno) e del dispositivo Nato/ Combined Joint Task Force (Cjtf) di Baghdad. Con la sua visita in Iraq e in Kuwait, Di Maio ha ribadito l’impegno di Roma per la stabilizzazione e per il contrasto al terrorismo nell’area, sia nella cornice della coalizione internazionale sia nell’ambito della missione Nato[19]. Il governo federale tedesco recentemente insediatosi ha comunicato la propria intenzione di prorogare di nove mesi (a decorrere dalla fine del mese di gennaio) la missione delle forze armate tedesche in Iraq, inquadrata nella Coalizione internazionale anti-Daesh. In Iraq il contingente tedesco avrà un massimale di 500 effettivi[20], la cui permanenza è resa ancora necessaria da una situazione securitaria tesa e in cui le reminiscenze del sedicente Califfato continuano a rappresentare una sfida reale per la stabilizzazione e la ricostruzione delle aree liberate.
Nel contesto regionale il processo di formazione del nuovo esecutivo iracheno non ha rallentato la politica di distensione regionale intrapresa da Baghdad. Da tempo, infatti, l’Iraq persegue l’obiettivo di costruire attorno a sé un’immagine solida e affidabile come mediatore e attore dialogante su tutti i fronti, cercando sponda soprattutto tra i principali partner regionali degli Stati Uniti. Da tempo il governo iracheno ha cercato di porsi come mediatore tra Arabia Saudita e Iran, ospitando nel corso del 2021 quattro cicli di colloqui positivi e costruttivi tra funzionari iraniani e sauditi. In chiave energetica, a gennaio il Consiglio dei ministri iracheno e il Ministero dell’Energia e delle Risorse minerarie giordano hanno approvato un accordo preliminare per la realizzazione dell’oleodotto destinato a collegare i giacimenti di Bassora al porto di Aqaba. Il progetto prevede la costruzione di 1665 km di oleodotto per il trasferimento di 1 milione di barili al giorno di greggio da Bassora al porto di Aqaba, dove il petrolio iracheno sarà poi raffinato o immesso sul mercato internazionale. Stando agli accordi, la Giordania si riserva il diritto di acquistare 150.000 barili di petrolio al giorno da raffinare presso la locale Jordan Petroleum Refinery Company. Secondo le stime irachene, il costo complessivo del progetto oscillerà tra i 7 e i 9 miliardi di dollari[21]. L’avvio di un progetto così ambizioso, da tempo solo sulla carta, è da considerarsi una diretta conseguenza della crescente intesa triangolare di Baghdad con Amman e il Cairo, siglata nel corso dello storico vertice di giugno nella capitale irachena con la partecipazione del re giordano Abdullah II e del presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi. Sulla spinta di questa crescente partnership economico-commerciale condivisa, l’Iraq prova ora a capitalizzare scommettendo su progetti infrastrutturali ambiziosi che possano contribuire a rafforzarne l’integrazione (non solo economica) a livello regionale.
Infine, il 22 dicembre la Banca centrale irachena ha comunicato l’avvenuto pagamento dell’ultima rata del debito di risarcimento al Kuwait per le riparazioni per danni di guerra in seguito all’invasione del 1990 (equivalente a 52,4 miliardi di dollari). In questo modo, Baghdad ha posto fine a un processo che durava da oltre 31 anni, con la speranza che l’avvenuta estinzione del risarcimento (a cui però si somma il debito equivalente nei confronti di altri 12 paesi creditori) possa liberare fondi per nuovi progetti interni, oltre a migliorare i rapporti con le monarchie arabe del Golfo[22].
NOTE:
[1]The Electoral Commission transmits to the Presidency of the Republic the final results of the general elections for accession to the Iraqi Council of Representatives, Iraq High Electoral Commission, 28 dicembre 2021.
[2] Nello specifico, gli esponenti del “Quadro di coordinamento” sciita hanno presentato nel corso della sessione un documento in cui si affermava che, con – presunti e non confermati – 88 seggi, la loro alleanza rappresentava il maggiore blocco in parlamento. Quest’affermazione è stata prontamente contestata dai deputati legati ad al-Sadr, i quali si sono opposti alla richiesta dei suddetti partiti, affermando, al contrario, di costituire il maggiore blocco in parlamento. “Chaotic scenes as Iraq’s new parliament holds first session”, Al Jazeera, 9 gennaio 2022.
[3] “KDP nominate Hoshyar Zebari for Iraqi presidency”, Rudaw, 13 gennaio 2022.
[4] R. Mansour e V Stewart-Jolley, Explaining Iraq’s election results, Chatham House, 22 ottobre 2021.
[5] “Attacks on Iraq political party’s HQ, Green Zone raise security fears”, Arab News, 15 gennaio, 2022.
[6] M. Knight e C. Smith, Making Sense of Militia Attacks in Iraq and Syria in Early 2022, The Washington Institute, 6 gennaio 2021.
[7] Iraq Economic Monitor, The Slippery Road to Economic Recovery, World Bank, ottobre 2021.
[8] “Iraq pockets over $7 billion in December oil sales: ministry”, Rudaw, 1 gennaio 2021.
[9] “Iraq’s average oil export rate for January will be 3.3 million bpd: minister”, Arab News, 30 dicembre 2022.
[10] “Iraq aims for 33 percent clean energy by 2030”, Zawya, 27 ottobre 2021.
[11] Covid-19 Data Explorer – Iraq, Our World in Data, 15 gennaio 2021.
[12] S. Kittelson, “Iraq records first omicron cases”, Al-Monitor, 6 gennaio 2021.
[13] Iraq – Coronavirus Research Centre, Johns Hopkins University, 15 gennaio 2021.
[14] “Al-Araji announces the end of the combat missions of the coalition forces and their withdrawal from Iraq”, Iraq News Agency, 9 dicembre 2021.
[15] Government of Iraq, “The Mission”, Twitter, 1 gennaio 2021.
[16] “US: Iraq is not Afghanistan and we are here to stay”, The National News, 27 ottobre 2021.
[17] “Iran seeks to cool tensions in Iraq”, Reuters, 22 dicembre 2021.
[18] La loro presenza non ha comunque impedito ai gruppi politici più sfavoriti dalle urne di sostenere l’esistenza di possibili inesattezze nel processo di voto e nel successivo conteggio nel tentativo di rallentare se non delegittimare l’esito elettorale.
[19] Missione del ministro Luigi Di Maio in Kuwait e Iraq, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, 23 dicembre 2021.
[20] https://www.tagesschau.de/inland/lambrecht-irak-101.html
[21] “Iraqi cabinet approves project for oil pipeline from Basra to Aqaba-Kharabsheh”, Jordan Times, 12 gennaio 2021.
[22] “Iraq’s credit rating lifts with final reparations payment to Kuwait”, Al-Monitor, 22 dicembre 2021.