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Cosa rimane del viaggio del Papa in Iraq

Martedì, 9 marzo, 2021 - 07:00
Bergoglio in Medio Oriente

Si è concluso ieri lo storico viaggio di Papa Francesco in Iraq. Per la prima volta un pontefice si è recato nella Terra dei Due Fiumi, dove in quattro giorni ha portato a termine una fitta agenda di colloqui istituzionali con figure religiose del mondo cristiano e musulmano (tra cui spicca quello del 6 marzo con il Marja' al-taqlid Ali al-Sistani) e ha visitato luoghi storici della cristianità.

La visita del Papa è stata significativa non solo sul piano religioso, ma anche su quello politico e sociale, soprattutto per il delicato momento in cui si è tenuta e per il messaggio che il pontefice ha trasmesso ai rappresentanti istituzionali iracheni (inclusi il presidente Barham Salih e il primo ministro al-Kadhimi): ossia la necessità di ricostruire un clima di tolleranza e inclusione sociale e promuovere il dialogo tra le molteplici comunità etniche e religiose che compongono la popolazione irachena. Questo aspetto è particolarmente importante poiché è servito per dare un segnale alle istituzioni irachene sull’importanza di superare le divisioni politiche e sanare le ferite sociali per il futuro del Paese, sapendo ascoltare le istanze dei cittadini, specie quelli più giovani.

L’arrivo di Papa Francesco, infatti, giunge in una fase critica per il paese che, dopo quasi un anno dalla nomina del nuovo governo in seguito a diffuse proteste di piazza, è ancora alle prese con diversi problemi interni. Primo su tutti la nuova ondata di contagi da coronavirus che sta interessando il paese, con un record di casi giornalieri – oltre 5.100 al 3 marzo – dall’inizio della pandemia. Il Covid-19 sta avendo gli effetti più gravi sulle comunità sfollate e i territori maggiormente devastati dalla guerra contro il sedicente Stato Islamico, come il governatorato di Mosul, dove dei 18 ospedali attivi nel 2014 solo due erano operativi nel settembre 2020, per un totale di circa 2.800 letti per tutta la provincia. Per quanto riguarda i vaccini, l’Iraq ha pre-ordinato 1,5 milioni di dosi (su una popolazione di oltre 41 milioni) da Pfizer-BioNTech, ma emergono seri dubbi sulla possibilità di rispettare il piano vaccinale adottato dalle autorità, soprattutto a causa dei ritardi nelle consegne e del numero insufficiente di dosi fino ad ora preventivate.

In secondo luogo, il perdurare di una diffusa insofferenza sociale verso l’élite e un sistema di potere considerato corrotto e inefficiente, come dimostrano le nuove proteste nelle province meridionali, incluse quelle Diwaniyah, Babylon e di Dhi-Qar, appena visitata dal pontefice. Qui i manifestanti, sebbene abbiano ottenuto la nomina di un nuovo governatore ad interim, continuano a chiedere giustizia per i propri compagni uccisi dalle forze di sicurezza sin dallo scoppio delle proteste nel 2019. Le proteste sono continuate a fasi alterne anche durante la pandemia, nonostante il lockdown imposto dalle autorità, e si sono caratterizzate per l’ampia partecipazione di giovani e studenti. Questo rispecchia la mancanza di opportunità economiche per le nuove generazioni, non solo in termini di posti di lavoro – l’ultima stima della disoccupazione giovanile è del 25,2 per cento – ma anche di accesso a posizioni e ruoli decisionali nell’apparato politico, che rimane dominato dai grandi partiti e dai loro storici leader.

Non è un caso, infatti, che molte delle critiche da parte della popolazione siano state indirizzate contro la nuova legge elettorale che regolerà le elezioni parlamentari al momento fissate al prossimo ottobre. Il provvedimento, approvato nel novembre 2020 dal Consiglio dei Rappresentanti dopo oltre un anno di discussioni, presenta però sostanziali differenze rispetto all’iniziale proposta sottoposta al parlamento dal presidente Salih e in larga misura basata sulle aspirazioni dei manifestanti. In particolare, i vari emendamenti parlamentari hanno alzato nuovamente il limite di eleggibilità da 25 a 28 anni, annullato l’obbligo per i candidati di possedere almeno una laurea e sovvertito l’organizzazione dei distretti elettorali, passati da 329 (uno per ogni seggio parlamentare) a 83 (ossia il numero di seggi riservati alle donne nel parlamento). Secondo alcuni osservatori, queste modifiche indicano la riluttanza delle attuali forze politiche in parlamento a rinunciare al proprio potere e garantire l’accesso ad una nuova generazione di leader, mentre la demarcazione delle circoscrizioni sarebbe in linea con le divisioni etno-settarie già presenti nel paese e rischierebbe di aumentare ulteriormente tensioni e rivalità sociali tra le varie comunità, garantendo altresì ai partiti maggiore influenza in quei distretti in cui possono appoggiarsi a figure di spicco locali.

Anche da un punto di vista economico, il paese si trova in una situazione difficile. L’economia è infatti basata in gran parte sui proventi del settore petrolifero – che rappresentano oltre il 45 per cento del PIL – e in grande sofferenza a causa del crollo globale dei prezzi nel 2020  dovuto alla repentina diminuzione della domanda di greggio indotta dalla pandemia, con il governo che ha visto ridursi di quasi la metà le proprie entrate nei primi otto mesi dello scorso anno e il PIL che, secondo il Fondo monetario internazionale, dovrebbe contrarsi di oltre il 10 per cento. Gli effetti si riflettono inevitabilmente sul budget dello Stato, stanziato a 113 miliardi di dollari per il 2021, ma accompagnato da un deficit di oltre 50 miliardi di dollari che dovrà essere coperto con un aumento delle tasse, nuovi prestiti internazionali e un’ulteriore svalutazione della moneta nazionale. Nonostante il piano di riforme economiche e fiscali lanciato dal governo nel White paper dello scorso ottobre, che mira a un taglio degli stipendi pubblici e a un maggior sostegno del settore privato, l’aumento della popolazione in condizioni di povertà rende questo percorso di riforma più complesso, soprattutto alla luce della riduzione dei sussidi (dal 13 per cento del GDP attuale al 5 per cento nel 2023), a cui dovrebbe corrispondere la creazione su vasta scala di nuovi posti di lavoro, al momento assai complicata. In questo contesto, quindi, la necessità di una più equa redistribuzione delle risorse – sottolineata da Papa Francesco durante il suo discorso tenuto alla Piana di Ur – si ricollega alle priorità economiche dell’esecutivo.

Non da ultimo, resta la profonda divergenza tra il governo iracheno e la regione autonoma del Kurdistan. Dopo la fallita implementazione dell’esito del referendum per l’indipendenza dell’ottobre 2017 e la perdita di gran parte dei territori contesi, infatti, il dialogo tra Baghdad ed Erbil è stato caratterizzato da una reciproca diffidenza, emersa soprattutto sul piano politico nella definizione della nuova legge di bilancio. In sostanza, se per i curdi il sogno dell’indipendenza sfumato ha lasciato amarezza e sfiducia nel loro ruolo all’interno dello stato, per Baghdad ha rappresentato un’opportunità per riequilibrare la propria posizione politica nei confronti di Erbil dopo il ridimensionamento subito durante gli anni del califfato. Questo nodo politico ancora irrisolto si riflette anche sul piano securitario, specie nei territori contesi, dove la mancanza di effettiva cooperazione tra i peshmerga curdi e le forze di sicurezza irachene sta offrendo margine di manovra alle cellule dello Stato Islamico, per lanciare una nuova campagna di attacchi, l’ultimo dei quali a Baghdad il 21 gennaio (40 morti e decine di feriti). Tale mancanza di sicurezza impatta soprattutto sulle minoranze. In luoghi come la piana di Ninive o la città di Mosul (entrambe visitate da Bergoglio), la mancata ricostruzione delle infrastrutture, unita all’inefficiente gestione governativa degli sfollati interni e alla presenza di milizie che controllano de facto il territorio e dominano la vita politica locale hanno inevitabilmente impedito il rientro di buona parte delle minoranze costrette a lasciare la zona dal 2014. In questo contesto, il perdurare di uno stato di profonda insicurezza e di un forte senso di abbandono nei confronti delle istituzioni nutrito dalle minoranze rischia di inficiare un progetto di ricostruzione identitaria e di coesione sociale nazionale e di segnare un cambiamento radicale della composizione demografica di queste aree del paese nel lungo periodo. La decisione del primo ministro di proclamare il 6 marzo “giornata nazionale della tolleranza e della coesistenza” è un primo passo, seppur simbolico, verso una consapevolezza della questione delle minoranze a livello istituzionale, già emersa con  la recente approvazione della legge sul riconoscimento dei crimini sofferti dalle donne yazide per mano di IS.

Infine, anche sul piano internazionale, la visita del pontefice si colloca in un momento estremamente delicato, segnato in primis dalla lunga fase di tensioni che ha contraddistinto le recenti relazioni tra gli Stati Uniti e l’Iran. Sul più ampio sfondo della disponibilità di Washington di ricomporre il dialogo sul programma nucleare iraniano, in Iraq è in corso un confronto a distanza tra i due attori per conoscere i reciproci spazi di manovra nella Terra dei Due Fiumi. Nel solo mese di febbraio, l’Iraq è stato il teatro di quattro lanci di razzi contro le infrastrutture militari, commerciali e diplomatiche ospitanti personale statunitense. Tra questi, quello del 15 febbraio contro la base aerea di Erbil (la capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno, nel cui stadio il 7 marzo ha tenuto un discorso Papa Francesco), e quello contro la base di Al-Assad, avvenuto due giorni prima dell’arrivo del pontefice. La responsabilità degli attacchi, rivendicata dal gruppo Saraya Awliya al-Dam (“Brigata dei Guardiani del Sangue”), ha a sua volta innescato la risposta statunitense, scattata il 25 febbraio con un raid aereo contro le postazioni nella Siria orientale controllate e alle milizie filo-iraniane appartenenti ai gruppi Kata’ib Hezbollah e Kata’ib Sayyid al-Shuhada (ad esso collegate).

In definitiva, i luoghi visitati in questi giorni dal pontefice rappresentano uno spaccato delle diverse fragilità dello stato iracheno. Da un lato, il viaggio può considerarsi un successo e un motivo di speranza per il Paese, soprattutto per il messaggio di convivenza e inclusione che lo ha permeato. Dall’altro, ha contribuito a riaccendere i riflettori sulle molteplici linee di frattura che continuano a caratterizzare il difficile contesto iracheno, per la cui risoluzione saranno necessari tanto una visione unitaria di lungo periodo quanto un progetto di coesione sociale su scala nazionale.

Autore: 

Francesco Salesio Schiavi

Francesco Salesio Schiavi
Research Assistant - ISPI MENA Centre

Federico Borsari

Federico Borsari
Research Assistant - ISPI MENA Centre

URL Sorgente (modified on 22/07/2021 - 11:16): https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/cosa-rimane-del-viaggio-del-papa-iraq-29563