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Crisi di Gaza: il ritorno al passato di al-Sisi?

Giovedì, 10 luglio, 2014 (Tutto il giorno)

Come spesso è accaduto nella storia recente le sorti dei palestinesi e di Gaza si legano a doppio filo con quelle d’Egitto. Anche nel caso dell’operazione “Soglia di protezione”, il Cairo è uno spettatore interessato a osservare gli effetti del conflitto israelo-palestinese e a tentare di orientarne l’andamento e gli sviluppi. In base alla ricostruzione degli eventi fornita a Reuters il 5 luglio scorso da Moussa Abu Marzouk, vice capo dell’ufficio politico di Hamas, l'intelligence egiziana ha mediato con Israele una tregua per interrompere il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza verso il sud dello stato ebraico. Come avvenuto nel novembre 2012 in occasione dell’operazione “Pilastro di difesa” con l’accordo di cessate il fuoco stipulato tra Israele e Hamas grazie alla mediazione dell’allora presidente islamista Mohammed Morsi, al-Sisi starebbe provando dunque a proporsi come arbitro imparziale nell’annosa questione di Gaza. Rispetto alla crisi del 2012 vi sono tuttavia differenze sostanziali nell’approccio e nella risoluzione alla stessa da parte dell’establishment cairota dettate da vari fattori endogeni ed esogeni all’Egitto. 

Gli obiettivi del Cairo sono primariamente di impedire a Tsahal (l’esercito israeliano) una nuova rappresaglia contro Hamas nella Striscia di Gaza e, in secondo luogo, di mettere in guardia Tel Aviv dai rischi che un’azione militare potrebbe comportare per l’Egitto e per la regione. Infatti, il timore maggiore è che l’escalation di violenze a Gaza possa aprire un nuovo fronte critico interno che va a sommarsi alla persistente instabilità del confine siro-libanese. Si spiegano in questo senso le parole di ferma condanna da parte del governo egiziano per gli attacchi israeliani a Gaza e l’esortazione – su pressioni di Mahmoud Abbas e dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) – allo stato ebraico a fermare le operazioni militari israeliane augurandosi che le parti possano prediligere una tregua o comunque una via negoziata. 

Data la convergenza di interessi con Tel Aviv – su tutti il rispetto del trattato di pace tra i due paesi del 1979 – e la necessità di salvaguardare i rispettivi interessi politico-strategici, l’Egitto sembrerebbe ad ogni modo approcciarsi alla crisi odierna con un atteggiamento molto più simile a quello tenuto da Mubarak nel 2008 durante l’operazione “Piombo fuso”. Abbandonando la solidarietà islamista di Morsi verso Hamas – vero elemento di rottura nei rapporti tra Egitto e Gaza negli ultimi anni –, al-Sisi potrebbe ridefinire la propria strategia nei confronti della causa palestinese prediligendo un atteggiamento cauto ma non remissivo, postura di cui i palestinesi accusavano Mubarak a causa, a loro modo di vedere, di una significativa assenza di contrasto alle iniziative israeliane.

Sono molteplici i segnali di discontinuità, rispetto all’atteggiamento adottato da Morsi, che vanno in questa direzione a cominciare dall’attore che ha condotto le trattative in questi giorni: l’intelligence militare, mentre nel 2012 la tregua fu promossa e mediata dal governo e dallo stesso Morsi. Un peso non trascurabile è in secondo luogo giocato dal tema sicurezza: si legge in quest’ottica la chiusura del valico di frontiera di Rafah che impedisce agli abitanti della Striscia di riparare per motivi umanitari nel Sinai settentrionale, in esatta antitesi a quanto fece Morsi durante il novembre di due anni fa. Data l’attuale instabilità del territorio in questione, oggi il Cairo non vuole assumersi il rischio di lasciar transitare nella penisola jihadisti, salafiti e traffici illegali di ogni genere (in particolare armi, droghe ed esseri umani), che potrebbero ulteriormente minare alla lunga non solo la sicurezza dei confini, ma anche la tenuta stessa delle istituzioni centrali, attualmente impegnate in una fase di stabilizzazione. Infine, a differenza dei rapporti distesi che intercorrevano tra il governo Morsi e Hamas, il nuovo esecutivo egiziano ha individuato nel gruppo islamista al potere a Gaza un nemico da combattere. Una scelta politica precisa in linea con la messa al bando della Fratellanza musulmana in Egitto, nel dicembre 2013, e con la decisione della magistratura cairota di mettere fuorilegge ogni attività nel paese del movimento islamista palestinese e legato all’Ikhwan da rapporti storico-culturali comuni. Le accuse a carico di Hamas consistono ancora una volta nella minaccia alla sicurezza del paese e nel sostegno finanziario, logistico e militare ai gruppi terroristi affiliati ad al-Qaida nella penisola del Sinai.

Il ritorno al passato di al-Sisi è sì giustificato da motivi di opportunità politica ma sembrerebbe anche rispondere a una strategia di ridefinizione del ruolo egiziano all’interno delle dinamiche israelo-palestinesi. Sebbene il Cairo non possa ammetterlo pubblicamente sia per una questione di prestigio all’interno dei delicati equilibri arabo-islamici, sia per non abdicare a un ruolo politico attivo nelle principali questioni regionali, per il governo egiziano la causa palestinese sembra oggi occupare una posizione marginale rispetto alle priorità della propria agenda politica. Una ridefinizione dell’interesse nazionale che non si traduce tuttavia in un completo disimpegno dalla causa palestinese. Se sul piano interno il presidente combatte il movimento islamista perché ritenuto co-responsabile nelle vicende politiche nazionali cha hanno visto protagonista la Fratellanza musulmana, sul piano esterno egli necessita del supporto di Hamas con l’obiettivo che il gruppo riesca a riportare all’ordine le schegge più impazzite e ormai fuori dal suo controllo, come le Brigate Izz al-Din al-Qassam, la Jihad islamica e i Comitati popolari di resistenza. 

È chiaro però che non potendo giocare la stessa partita su più tavoli al-Sisi dovrà rinunciare a qualcosa: difficile dire se in questo momento rinuncerà alla convergenza di interessi politici con Israele o se preferirà consumare una definitiva rottura con Hamas, se privilegerà il dividi et impera praticato da Mubarak o se manterrà una propria linea pragmatica dettata dalle contingenze interne.  Stando così le cose, la scelta egiziana sembrerebbe essere quella di rimanere in secondo piano, quasi in disparte, rispetto alla crisi di Gaza, lasciando lo scomodo compito dell’intervento a Israele. In questo modo il Cairo eviterebbe sia un suo coinvolgimento diretto nella crisi, sia un imbarazzo nei confronti della propria opinione pubblica ancora legata alla causa palestinese.

Così in un contesto regionale sempre più complesso, l’operazione “Soglia di protezione” a Gaza potrebbe segnare una nuova svolta nei rapporti tra Egitto e Hamas. Resta da capire solo in che modo al-Sisi saprà gestire questo delicato dossier e, soprattutto, quale interesse politico farà prevalere nel corso della crisi.      

Giuseppe Dentice, ISPI Research Assistant
 
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Source URL (modified on 27/09/2017 - 17:14): https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/crisi-di-gaza-il-ritorno-al-passato-di-al-sisi-10860