Crisis to Watch - Argentina
Un Paese, tre scenari diversi. Eccoli: il primo è un altro default, dieci anni dopo. Il secondo è una ripartenza, dopo il rallentamento della crescita. Il terzo è una lunga fase di stagnazione. Tre ipotesi distinte ma tutte plausibili.
Nessuno economista equilibrato si espone sul futuro prossimo dell’Argentina. Gli avversari del Governo di Cristina Fernandez de Kirchner propendono ovviamente per il primo scenario. I “fan” della presidenta sono invece pronti a giurare per la ripartenza.
L’Argentina, da sempre, riserva sorprese: cent’anni fa era il granaio del mondo, ma già dieci anni dopo, il primo tonfo. Le due guerre mondiali in Europa, con conseguenti gravi crisi economiche, non hanno favorito Buenos Aires che non si è “pensata” né “programmata” come uno stabile fornitore di materie prime agricole. Le dittature non hanno semplificato le cose. Da allora a oggi, l’unica costante è stato il ciclo economico fortemente legato alla fluttuazione dei prezzi delle commodities.
Ma ora che succede nella rutilante Buenos Aires ? Solo lì, nella capitale di un Paese macrocefalo, si tracciano strategie di politica economica, le si correggono, le si disfano.
Le province, definite con snobismo “el interior”, sono buone solo per produrre soia e cereali.
L’unica certezza, da molti mesi a questa parte, è la frattura, ben visibile, di un’opinione pubblica spaccata in due. Ogni settimana si alternano manifestazioni pro-Cristina o anti-Cristina. I “pro” so-stengono il modello di Cristina, neostatalista. Una politica economica che, va riconosciuto, ha fatto lievitare i consumi, anche se ciò è avvenuto soprattutto grazie ai prezzi delle materie prime. Tra il 2003 e il 2011 i tassi di crescita del Pil sono stati superiori al 7%, con punte del 9%, ritmi cinesi. Poi, quest’anno, l’onda lunga della crisi internazionale ha colpito anche l’Argentina e il Pil non supererà il 2-3%. Di certo i consensi che Cristina aveva incassato alle elezioni presidenziali dell’ottobre 2011, vicini al 54%, sono scesi drasticamente.
In verità il problema non è solo di crescita “frenata”, ma di misure sempre più restrittive e, in qual-che caso coercitive adottate dalla Kirchner. Innanzitutto il blocco delle importazioni, mirato a favorire la produzione nazionale, causa una paralisi imprenditoriale che colpisce soprattutto le aziende manifatturiere che utilizzano parti importate. Poi crea delle rigidità che disincentivano gli investimenti esteri.
Un’altra misura adottata dalla presidenta Kirchner riguarda i limiti degli acquisti di valuta estera. A fronte dell’ingente fuga di capitali che nel 2011 ha superato i 20 miliardi di dollari, il governo ha reso molto difficile l’acquisto di dollari ed euro. Chi compra valuta estera viene monitorato fiscalmente: in altre parole se una famiglia argentina spende 5.000 dollari per una vacanza a Miami deve dimostrare di avere un reddito annuo compatibile con quest’importo.
Insomma l’acquisto di dollari è diventato un “redditometro”. Una misura definita odiosa da molti os-servatori in quanto lesiva della privacy da una fetta importante di argentini. Vista però con simpatia dalle classi più povere che accusano l’aristocrazia agraria di non aver mai favorito né la mobilità sociale né tanto meno la diversificazione dell’economia.
Un altro capitolo nero è l’inflazione, la più iniqua delle tasse in quanto penalizza i percettori di redditi fissi, coloro che non possono scaricare a valle gli aumenti dei prezzi. Dal 2007 a oggi il tasso annuale d’inflazione, secondo gli istituti di ricerca economica indipendenti, supera il 25% annuo. Un dato che colloca l’Argentina nel novero dei Paesi con il maggior tasso d’inflazione al mondo. Tuttavia secondo l’Indec, l’istituto nazionale di statistica, evidentemente controllato dal governo, l’inflazione non supera l’8% annuo. Chi vive in Argentina non ha dubbi che l’incremento dei prezzi annuo sia vicino al 25%. Una disputa che è approdata al Fondo Monetario Internazionale. Ogni mese vengono reiterate al governo di Buenos Aires richieste di maggiore trasparenza delle statistiche. Insomma da Washington arriva un’accusa palese di manipolazione dei dati.
Infine la questione debitoria, complessa, articolata e pericolosa.
L’ultimo capitolo è lo spettro di un default conseguente alla decisione di un giudice americano, Thomas Griesa: a fine novembre 2012 ha posto un aut aut a Buenos Aires. Pagare anche i possessori di bond che non hanno aderito alle ristrutturazioni successive al default del 2002. Nel caso specifico Buenos Aires è condannata al pagamento di 1,3 miliardi di dollari, pretesi da alcuni fondi speculativi americani. Finché non lo farà non potrà pagare gli interessi ai detentori dei nuovi titoli ristrutturati.
Immediata la replica argentina. Il governo di Buenos Aires ha chiesto e ottenuto alla Corte d’Appello di New York di rivedere la misura con la quale il giudice Griesa ha disposto che Buenos Aires, effettui, entro il 15 dicembre prossimo, un deposito di garanzia di 1,3 miliardi di dollari, pretesi da fondi speculativi Usa in possesso di bond in default.
Ancora una volta, quindi, scintille. Con tanto di downgrading dell’agenzia di rating Fitch e allarme tra gli operatori di finanza internazionale.
In verità stavolta l’Argentina ha qualche buona ragione da accampare. La ristrutturazione del suo debito è avvenuta in modo ordinato e chi ha aderito alle offerte (la stragrande maggioranza dei possessori di tango bond) ha ottenuto rendimenti accettabili.
Un nuovo default di un Paese che si è ripreso economicamente e che ha onorato gli impegni con i possessori di nuovi titoli chiuderebbe definitivamente la porta ai prossimi Paesi candidati alla ristrut-turazione del debito. Ma soprattutto provocherebbe una grave instabilità internazionale in una fase di estrema delicatezza: la crisi greca, la debolezza dell’Europa, le emergenze americane.