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Dopo Chavez: dall’ALBA al tramonto

Mercoledì, 6 marzo, 2013 - 00:00

Il vuoto di potere provocato dalla morte di Chávez non graverà soltanto sul Venezuela, ma è destinato a trascinare con sé pesanti conseguenze su tutta l’area sudamericana; se per alcuni (come i moderati esponenti centristi) avrà il sapore di una tanto auspicata opportunità d’affermazione, per molti altri, mieterà soprattutto timori e incertezze e il campo della semina sembra essere proprio quello del vicino. 

La particolare condotta adottata dal comandante venezuelano sul fronte interno, caratterizzata dalle ben note spinte nazionaliste e antiliberali e da una lotta di classe di stampo marxista portata alla ribalta, è stata di fatto affiancata da una politica estera nuova e decisa, tale da segnare un punto di svolta – se non addirittura di non ritorno – nello scacchiere delle relazioni tra i due emisferi del continente americano. Le coraggiose misure indipendentiste intraprese dal governo venezuelano per contrapporsi all’egemonia statunitense – in netta controtendenza rispetto a quelle di passiva accondiscendenza cui diverse amministrazioni dell’America Latina (piegate da debiti esteri sempre più ingenti e dai contraccolpi di decennali politiche di sviluppo miopi), hanno dovuto sottoporsi – sono state percepite dal popolo sudamericano come una speranza di acquisizione di una rinnovata dignità e hanno saputo riaccendere desideri di rivalsa popolare che nella regione giacevano assopiti forse dai tempi del post-rivoluzione a Cuba.

Fin dal principio, Chávez si è presentato come libertador, non solo del proprio paese, ma dell’intero continente sudamericano, cui ha offerto un rappresentante unico da temere nelle arene internazionali. Tuttavia, aldilà dell’abilità mostrata nella costruzione della sua immagine a livello mondiale, va riconosciuto a Chávez soprattutto, e più pragmaticamente, il merito di avere impiantato un “nuovo modello di regionalismo”, una nuova forma d’integrazione tra stati che fosse in grado di sopperire ai fallimenti e alle frustrazioni lasciati da anni di politiche liberiste forzatamente portate avanti dalle istituzioni finanziarie internazionali e da tentativi di cooperazione imposti dall’esterno.

In questo senso l’Alba (Alianza bolivariana para los pueblos de nuestra América), il progetto politico, economico e sociale pensato in alternativa all’Alca (Area de livre comércio des Americas) di matrice statunitense, rappresenta probabilmente l’espressione massima del modello governativo noto come “chavismo” e uno dei tentativi storici più riusciti di acquisizione della propria autodeterminazione, (che in questo caso non riguarda solo un paese ma un’intera regione geografica) e di sradicamento da una troppo stretta logica di massimizzazione del profitto per abbracciare una dimensione più umana che pone al primo posto il benessere del popolo. L’idea, nata nella testa di Chávez già nel 1992 (l’anno del suo tentato colpo di stato), ha preso poi forma grazie alla forte amicizia che scorreva tra Caracas e Havana, ed è stata abilmente portata a compimento dal comandante con determinazione ma senza fretta, adattandosi alle agende politiche contemporanee e programmandola in modo tale da raccogliere il consenso massimo, quello dell’intero popolo latino americano.

L’Alba è stata da sempre l’arma principale per perpetuare una lotta all’influenza statunitense ma, d’altra parte, ha provocato l’effetto (intenzionalmente voluto da Caracas?) di lasciar avanzare il Venezuela quale nuovo egemone della regione e, seppure esso possa essere più facilmente legittimato dall’appartenenza geografica, perpetua inevitabilmente gli stessi meccanismi di dipendenza e disparità, impedendo uno sviluppo autonomo degli altri paesi. Gli alti costi del greggio e il conseguente aumento del potere geopolitico venezuelano hanno infatti permesso a Chávez di sostenere economicamente, sin dalla fondazione dell’Alleanza nel 2004, alcuni stati dell’area e molti movimenti politici latinoamericani, che ora seguono con timore le dinamiche politiche venezuelane dalle quali vedono pendere le sorti delle loro economie. 

All’indomani della morte del leader massimo dell’Alba sorge quindi spontaneo chiedersi che cosa ne sarà del progetto prediletto di Chávez e dei suoi membri, se sia destinato a perire con lui – come la situazione di stasi che ha caratterizzato l’organizzazione durante il periodo d’infermità del comandante lascia sospettare – o se invece potrà contare sull’entusiasmo degli altri esponenti socialisti che da tempo sostengono la linea politica bolivariana. Uno dei poli dell’asse Venezuela-Cuba attorno al quale è stata costruita l’Alleanza viene di fatto a vacillare e, a meno che Maduro alle prossime elezioni non sia capace di porsi come degno erede di Chávez e di accattivarsi la fiducia dei premier dei paesi membri, sarà anche destinato a essere spostato.

Il quadro politico sudamericano odierno suggerisce da più punti che un più che plausibile ereditiere del regno chavista sia Rafael Correa, il presidente ecuadoriano vincitore delle elezioni tenutesi meno di un mese fa e in cui molti rivedono lo stile populista e folcloristico di Chávez. Proprio in riferimento alle sorti dell’Alternativa bolivariana rispetto allo stato di salute del caudillo venezuelano, Correa ha dichiarato di recente che la revolucion è più grande di un uomo solo e che sarebbe continuata anche dopo la sua morte. Raul Castro, invece, l’altro maggiore polo dell’Alleanza, non sembra essere interessato a sostituirsi a Chávez quale fermo sostenitore dell’antimperialismo solidale e, d’altronde, il suo guadagno nell’appartenenza all’organizzazione dipenderà soprattutto dai flussi di petrolio che il Venezuela riuscirà a garantire in futuro all’isola cubana, ovvero, dallo stato dell’economia del paese e dall’orientamento della prossima amministrazione di Caracas. Il presidente boliviano Evo Morales, altro fedele amico del presidente venezuelano, è improbabile che nel prossimo biennio si spenda tanto nelle cause del progetto bolivariano, in quanto si concentrerà sugli importanti problemi di politica interna che attanagliano il paese, la spaccatura della sua coalizione indigena e il guadagno del consenso popolare in vista delle elezioni presidenziali del 2014.

L’unico pertanto a trovarsi in una posizione propizia per aumentare il proprio peso all’interno del blocco dei governi di sinistra della regione è Correa che, nel corso di questo nuovo mandato, avrà modo di approfondire la sua agenda socialista e non si farà tante remore a inasprire ulteriormente i rapporti con l’asse statunitense, già abbondantemente compromessi dai numerosi screzi diplomatici che hanno interessato Washington e Quito e dalle negate concessioni commerciali.

Sebbene la morte di Chávez segni quindi la perdita di uno dei massimi esponenti della sinistra latinoamericana e possa potenzialmente lasciare più spazio ai governi centristi, l’Alba gode ancora di forze che la possano alimentare. La recente riconferma di Rafael Correa in Ecuador e le imminenti elezioni di Evo Morales in Bolivia, il supporto di Cuba e un inedito asse politico con l’Argentina persistono e potrebbero rappresentare gli assi portanti per l’Alleanza in futuro.

Le uniche ombre che si gettano sul destino dell’Alba riguardano quindi l’effettivo interesse da parte dei capi degli stati membri di mantenere in vita l’organizzazione e di portare avanti gli obiettivi per i quali era stata così ardentemente desiderata da Chávez. Rimane, ad esempio, ancora in sospeso il progetto di diffusione in tutta la regione dell’Alba del Sucre (Sistema Único de Compensación Regional) quale vera e propria moneta di scambio atta a sostituire in toto il dollaro statunitense e che, finora, è stata usata solo come strumento virtuale per talune transazioni.

Quelli che si prospettano d’ora in avanti nel continente sudamericano sono tra l’altro anni difficili, in cui tutti i governi, seppure in misura diversa, dovranno fronteggiare i problemi derivanti da sistemi economici indeboliti dalla crisi, più lenti tassi di crescita, preoccupanti deficit di bilancio e la minaccia della dipendenza dalla potenza cinese la quale, detenendo quote via via crescenti del debito di molti stati latinoamericani, rappresenta di fatto il vero potenziale futuro egemone della regione. A queste condizioni, devono sussistere davvero delle forti ragioni di convenienza – più economica che ideologica – per sorreggere l’Alba, oppure, si deve sperare che in questi anni di costrizione a letto Chávez abbia escogitato un nuovo piano da suggerire ai suoi successori affinché il suo amato progetto bolivariano gli sopravvivesse a lungo.

* Anna Pascale, Ispi Research Trainee

 

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