Due fronti caldi sul bastione turco
Il viaggio in Medio Oriente del presidente Obama, proprio nel decimo anniversario dell’invasione anglo-americana dell’Iraq, non prevede una tappa nella penisola anatolica. Ciò non toglie che la Turchia rimanga un partner strategico per Washington nella regione, sebbene nell’ultimo decennio le relazioni bilaterali abbiano attraversato fasi alterne e non siano mancate tensioni e divergenze sui più critici dossier regionali.
Negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti si sono trovati di fronte a un alleato più assertivo, meno incline ad accettare vincoli e pressioni esterne e più indipendente nelle scelte di politica estera. Il diniego del parlamento di Ankara al passaggio di truppe americane sul territorio turco per l’apertura di un fronte settentrionale nella guerra in Iraq è stato il caso più emblematico di questo orientamento più autonomo, che è stato all’origine di un profondo strappo nelle relazioni bilaterali.
Il dinamismo e l’assertività che hanno caratterizzato la politica mediorientale della Turchia nell’era dell’Akp – il Partito giustizia e sviluppo al governo dal 2003 – sono stati dettati da precisi interessi strategici, economici ed energetici, non sempre in linea, anzi in alcuni casi in netto contrasto, con le politiche e gli interessi statunitensi nella regione. Pragmatismo, autonomia e la politica di “zero problemi con i vicini” hanno tra le altre cose favorito il riavvicinamento a nemici storici quali l’Iran e la Siria che, etichettati come “stati canaglia” dagli Stati Uniti, sono diventati partner regionali di rilievo per Ankara. A ciò ha fatto da contraltare il progressivo allentamento della partnership con Israele – che dalla metà degli anni Novanta aveva costituito uno dei cardini dell’architettura statunitense nell’area mediorientale – fino a giungere allo stallo nei rapporti bilaterali dopo l’incidente della Mavi Marmara (maggio 2010). Questi sviluppi, uniti alla paralisi dei negoziati di adesione con l’Unione europea e al voto contrario di Ankara alle sanzioni nei confronti dell’Iran in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, hanno alimentato il timore che l’Occidente stesse “perdendo” la Turchia. L’accordo per il dispiegamento sul territorio turco del sistema di difesa missilistico della Nato – inteso a fronteggiare anche un’eventuale minaccia iraniana – ha in parte dissipato le preoccupazioni occidentali, senza tuttavia sgombrarne del tutto il campo.
È con la Primavera araba che si crea una nuova convergenza tra Turchia e Stati Uniti sulle questioni mediorientali. Da un lato, Ankara e Washington si sono trovate allineate nel sostenere le istanze di riforme democratiche nei paesi arabi. Da una prospettiva statunitense la democrazia turca, seppure ancora “in progress”, si presenta non solo come un modello da sostenere e promuovere, ma anche come un alleato con le carte più in regola di altri partner, quali l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo, nel favorire l’evoluzione in senso democratico dei sistemi politici arabi e nel definire i futuri assetti regionali. Dall’altro, la crisi siriana ha allontanato il governo turco da Damasco e Teheran.
Tuttavia, in questo quadro di rinnovata intesa non mancano le criticità a partire proprio dalla crisi siriana. Infatti, se l’obiettivo comune rimane la caduta del regime di Bashar al-Assad, la Turchia vorrebbe un intervento più deciso degli Stati Uniti, anche nell’armare l’opposizione siriana. Washington dal canto suo intende evitare l’eccessivo rafforzamento delle forze islamiste e non vede di buon occhio il sostegno turco all’ala sunnita dei ribelli siriani – in particolare al gruppo al-Nusra che gli americani considerano un gruppo terroristico – che va in direzione opposta ai tentativi statunitensi di creare un fronte di opposizione più composito possibile.
Un altro potenziale fronte di frizione è l’Iraq dove, nonostante le tensioni politiche con il governo centrale di Baghdad, la Turchia ha notevolmente accresciuto la propria presenza economica e commerciale. L’Iraq è diventato il secondo mercato di sbocco delle esportazioni turche – 10,8 miliardi di dollari nel 2012 – dopo la Germania. In particolare si sono intensificate le relazioni con il Kurdistan iracheno che assorbe il 70% dell’export, è destinatario di ingenti investimenti e conta il maggior numero di imprese turche nel paese. Proprio le strette relazioni e la politica autonoma che il governo turco porta avanti con il governo regionale del Kurdistan soprattutto in materia energetica – i turchi hanno forti interessi nelle esplorazioni petrolifere nel nord dell’Iraq – costituiscono una fonte di preoccupazione per Washington, che teme che ciò possa trasformarsi in un fattore di destabilizzazione dei fragili equilibri iracheni e spingere Baghdad sempre più verso Teheran, e che non ha mancato di esercitare pressioni sulla Turchia perché adotti una politica più cauta. Del resto, un ulteriore deterioramento dello scenario mediorientale non è neanche nell’interesse del governo turco, che si trova oggi impegnato in un complesso negoziato per la soluzione dell’annosa questione curda.
In un Medio Oriente in profonda trasformazione, il rilancio della partnership strategica tra Washington e Ankara potrebbe favorire la stabilità e contribuire alla composizione delle crisi regionali. Molto dipende da quanto l’amministrazione Obama, il cui sguardo volge sempre più verso l’Asia, vorrà impegnarsi in un contesto che oggi non sembra più occupare la stessa posizione nella scala delle priorità che aveva in passato, e che è invece diventato cruciale per la Turchia e la sua ambizione a divenire una potenza regionale.