Erdoğan, l'architetto di una nuova Turchia
In dodici anni di potere il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) con le sue origini islamiche ha attirato un grande consenso sociale che è sfociato nella vittoria plebiscitaria del 12 giugno 2011 ed è stato riconfermato dall’importante risultato delle elezioni amministrative del marzo 2014, marcando il successo della leadership di Recep Tayyip Erdoğan, oggi percepito come il piu accreditato candidato alla presidenza della Repubblica. È indubbio che sotto la sua guida l’Akp abbia contribuito a creare un nuovo corso nella gestione politica della Turchia, scardindando molti dei cliché propri della tradizione politica del paese. Il suo periodo di governo può essere diviso in diverse fasi che si avviano il 3 novembre 2002 con l’ascesa sulla scena pubblica con il programma di Conservative Democracy, in cui tutti gli sforzi sono concentrati nella ricerca di legittimazione e riconoscimento e sono segnati da una sorta di presa di confidenza con le strutture e la burocrazia di stato. L’idea di trasformazione e riformismo è stata il corollario naturale della forte inclinazione a rimuovere tutti quei vincoli sistemici che avrebbero rallentato il processo di democratizzazione.
Sin dagli esordi la formazione di governo – provenendo nella maggior parte dalle periferie – si è dimostrata molto convincente ad accomodare le richieste di rappresentanza delle masse. Il vantaggio dell’Akp, infatti, deriva dalla sua abilità a beneficiare di un nuovo gruppo di intellettuali e soprattutto dalla combinazione di riformismo politico, conservatorismo culturale e approccio economico neoliberale che hanno portato Ankara a essere la sedicesima economia mondiale e a raggiungere picchi di crescita del 9%. In questo quadro non è poi da sottostimare la flessibilità delle comunità islamiche locali nell’adattarsi alla realtà urbana della Turchia e a trasformare il proprio discorso in linea con le nuove necessità, così come in prima battuta è stato fondamentale il supporto della cemaat Fetullah Gülen (oggi accerrimo nemico e primo target delle politiche oppressive del governo) nell’interpretare i problemi della società e fornire valide soluzioni in termini di servizi.
In linea con il forte pragmatismo della classe dirigente è apparsa subito evidente la forte asimmetria tra la forza al governo e l’opposizione che, avendo esigua influenza nel processo di formazione delle politiche, si è trovata in una posizione marginale. Da qui un sostanziale fallimento del Partito repubblicano (Chp) a delineare nuove strategie politiche volte ad ampliare il proprio supporto, incapacità che nel corso del tempo ha minato la credibilità dell’opposizione diminuendo le chance di presentarsi al pubblico come valida alternativa dell’Akp. Diversamente la popolarità di Erdoğan, abile a stabilire un forte senso d’identità con le persone comuni, provenienti specialmente dai sobborghi urbani e dalle province anatoliche, ha rappresentato un valore aggiunto spingendo il partito in una posizione dominante all’interno del sistema. In aggiunta alla crescente influenza all’interno delle istituzioni governative e nei processi di policy making, le sue vittorie a livello locale e nazionale hanno conseguentemente aperto il varco al patronato politico, elemento tradizionalmente importante per l’ottenimento dei voti nello scenario turco. In fondo, l’Akp e il Chp sono l’immagine di due distinte culture sociali e politiche basate su punti di vista diametralmente opposti soprattutto riguardo il ruolo della religione nello spazio pubblico. E il clima in cui si sono svolte le elezioni di luglio 2007 ha sottolineato la profonda frattura tra i due blocchi, che si è riflessa in una nuova e capovolta versione della logica “centro-periferia”- ‘’élite di stato e governati’’.
Uscendo rafforzato dal secondo mandato elettorale, quindi, l’Akp si è trovato nella posizione favorevole per vincere il braccio di ferro con l’establishment kemalista e di nominare Abdullah Gül alla presidenza della Repubblica, segnando cosi l’inizio dell’esercizio effettivo del potere che si è dimostrato più autonomo nel controllo dei vincoli sistemici. La natura pragmatica del sostegno popolare, basato principalmente su valutazioni economiche e aspettative d’innalzamento del benessere, è stata il motore dei successi elettorali che hanno insignito Recep Tayyip Erdoğan come leader assoluto, proiettandolo direttamente alla candidatura presidenziale. L’incontrastato favore del pubblico verso il primo ministro – che nell’ultimo biennio ha fatto della politica turca una sorta di one man show in cui è evidente l’influenza della componente sunnita nell’elaborazione delle politiche – riflette senza dubbio l’importanza accordata all’aspetto religioso come fattore che aiuta a fornire credito e credibilità.
Tuttavia, l’incondizionata fedeltà al leader e la sua tendenza a una monolitica visione della volontà nazionale che, basata su un’interpretazione morale della politica, molto spesso identifica la democrazia con le regole della maggioranza, fa sì che se da una parte Erdoğan si erge a rappresentante della nazione, sviluppando un discorso politico che riconosce e protegge le differenze, dall’altra tende a sottorappresentare determinati gruppi. E le proteste di massa iniziate l’estate scorsa a Gezi Parkı sono l’esempio più concreto di come la retorica del primo ministro e il conseguente approccio del partito abbiano esarcerbato le tensioni non solo con i partiti all’opposizione, ma anche e soprattutto con alcuni settori della società peraltro già profondamente polarizzata.
È pur vero che sebbene la stabilità interna sia stata messa a dura prova dai persistenti conflitti politici, dai drammatici eventi di piazza e dalle ondate di scandali che hanno coinvolto direttamente il primo ministro e alcuni dei suoi uomini più fidati, oggi l’Akp dimostra di essere politicamente forte e Recep Tayyip Erdoğan si conferma come l’architetto di una nuova Turchia. Tuttavia, dato il ruolo dominante all’interno dello spazio pubblico nazionale combinato all’assenza di un effettivo sistema di check and balances, lo scenario che si aprirà dopo il 10 agosto presenta serie ombre sull’equilibrio di potere che si verrà a creare tra presidente, partito al governo e forze sociali, e quindi sulla direzione futura del paese.