I dilemmi atomici di Washington: frenare Teheran per convincere Tel Aviv
Se Romney corteggia Israele per conquistare il Gop
«Non lascerà vacillare il tuo piede, non si addormenterà il tuo custode. Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode di Israele». Sono le parole del salmo 121, pronunciate dal candidato repubblicano Mitt Romney a conclusione del discorso tenuto in occasione della visita a Gerusalemme dello scorso luglio. Per spostare ancora un po’ più in là il confine tra sacro e profano, il candidato repubblicano ha scelto il quartiere di Mishkenot Sha’ananim, vecchia no man’s land a pochi passi dalla linea verde che fino al 1967 segnava il confine tra Israele e Giordania. Durante il proprio discorso, Romney ha toccato uno per uno i nervi scoperti dell’amministrazione Obama sul complicato affaire iraniano-israelo-palestinese: «Il muro del pianto fa parte della capitale di Israele, Gerusalemme»; «Se sarò presidente, deciderò insieme ai governanti di Israele quando spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme» e, immancabilmente, «Il presidente Obama non contrasta in modo deciso il presidente Ahmadinejad quando dice che Israele deve essere cancellato dalla mappa»(1).
Niente di nuovo sul fronte mediorientale rispetto a quanto già andato in scena durante il resto della campagna elettorale: il candidato repubblicano che rimprovera il presidente in carica di non aver svolto un ruolo abbastanza incisivo per gli standard statunitensi, in particolar modo riguardo al dossier nucleare iraniano. Del resto, la strategia temporeggiatrice di Obama – incentrata su inasprimento delle sanzioni e cyber-attacchi mirati – ben si presta a critiche e strumentalizzazioni da parte del Grand Old Party (Gop), che, nella sua declinazione interventista, si fa da sempre promotore di un approccio più “muscolare” alla politica estera. La conferma, in questo senso, è arrivata durante la Convention di Tampa dei giorni scorsi, durante la quale è stata presentata la nuova piattaforma repubblicana, documento contenente le linee programmatiche del partito per i prossimi 4 anni. Con riguardo all’Iran, le linee guida sono essenzialmente due: «fermo supporto alla popolazione iraniana che protesta contro un regime dispotico» – con un’accusa implicita al non interventismo di Obama in occasione delle proteste seguite alla rielezione di Ahmadinejad nel 2009 – e «assunzione della leadership nello sforzo collettivo teso a evitare che Teheran acquisisca capacità nucleare» – con una non poi così implicita accusa al tentativo di engagement avviato da Obama, risoltosi, secondo il Gop, in un fallimento(2). Data l’ipersecuritizzazione della questione nucleare, che di fatto agisce come una sorta di paraocchi che impedisce a Washington di continuare a dialogare con l’Iran su questioni e interessi comuni che potrebbero favorirne il riavvicinamento, sembra avere ragione chi sostiene che, in ultima analisi, la politica di Washington si decida a Tel Aviv. La domanda è se Washington possa continuare a permetterselo.
Secondo un sondaggio diffuso da Gallup nel giugno scorso, il 64% degli ebrei americani si dice incline a votare per Obama(3). Una percentuale che è scesa del 10% rispetto a quanto registrato nelle elezioni del 2008, dove il 74% dell’elettorato ebraico aveva votato per Obama, ma che rimane comunque ben al di sopra della preferenza accordata al candidato repubblicano (29%, sempre secondo Gallup)(4). La maggior parte degli elettori ebrei americani – che, lo si ricordi, rappresenta una porzione di elettorato particolarmente attiva (l’80% degli ebrei americani si reca alle urne, contro il 57% della media nazionale) – parrebbe dunque preferire l’approccio disteso di Obama ai propositi muscolari di Romney. Sarebbe profondamente ingenuo pensare che Romney e i suoi strateghi politici non sappiano che gli ebrei americani, proprio in quanto cittadini americani, votano più sulla base di fattori di politica interna che non sulla base dell’attaccamento a Israele. Più plausibilmente, dunque, i consensi che Romney ha sperato di raccogliere con i reiterati attacchi verbali all’Iran in difesa di Israele sono non tanto quelli degli ebrei americani, quanto quelli dell’ala destra del proprio partito.
Si confermerebbe dunque la tendenza degli ultimi mesi che ha visto il candidato repubblicano spostarsi sempre più a destra per rincorrere i voti dell’ala più estremista del proprio partito, allontanandosi però in questo modo da quell’elettore mediano che, almeno nella teoria, detiene le chiavi della vittoria elettorale. È bene ricordare infatti che Romney è un candidato che ha saputo vincere le primarie senza però convincere fino in fondo la base del proprio stesso partito. Per tentare di sorpassare da destra il rivale Obama, egli ha scelto di puntare su quei temi che, per eccellenza, riscaldano gli animi e con essi i più bassi istinti delle persone. Sebbene la politica, soprattutto in clima di campagna elettorale, ci abbia oramai abituato a una certa divergenza tra parole e azioni, è bene ricordare che le parole, una volta pronunciate, esercitano un vero e proprio influsso sul mondo circostante. In questo senso, la strategia di “securitizzazione” della questione israeliana può avere il pericoloso effetto di accrescere il senso di paura di una popolazione, quella israeliana, che vive da sempre nel terrore, per qualcuno paranoia, di un attacco imminente. Giocare con senso di paura e percezione della minaccia equivale a scoperchiare un pericoloso vaso di Pandora, il cui funesto contenuto non può che finire col colpire tutte le parti in causa, indistintamente.
Allo stesso modo, occorre domandarsi fino a quando potrà reggere l’ardita tattica dell’Iran-bashing(5). La retorica anti-iraniana potrà servire a racimolare voti parlando direttamente alla pancia dell’elettorato – se non di quello ebraico almeno di quello più conservatore che chiede un approccio più muscolare alla politica estera – ma converrà davvero continuare ad alimentare una narrazione ostile che negli anni ha dimostrato di non saper produrre altro che frutti avvelenati?
Molte, infatti, sono le variabili che vanno perdute nella narrazione, soprattutto mediatica, dell’antagonismo iraniano. In primis, le dinamiche interne: non si può affrontare la questione del nucleare iraniano senza tenere in considerazione i fattori strutturali e culturali che guidano l’azione politica iraniana; ciascun Paese si crede mondo, ma nel caso dell’Iran le antiche ambizioni imperiali dell’Eranshahr sasanide(6) rivivono quotidianamente in un popolo che si percepisce come qualche cosa di separato, e per certi versi superiore, rispetto al resto del mondo, soprattutto di quel mondo arabo nel quale è incastonato e dal quale si sente ciclicamente minacciato. Un altro fondamentale fattore per comprendere le lenti con le quali Teheran guarda al mondo – e con le quali elabora i propri calcoli geopolitici – è infatti quello della “solitudine strategica”: isola persiana sciita immersa in un oceano arabo sunnita e circondata da truppe e basi statunitensi, la Repubblica Islamica sperimenta la sindrome dell’accerchiamento nonostante il graduale ritiro statunitense dalle frontiere e la presenza di un governo amico a Baghdad. O ancora, guardando all’assetto politico interno, è importante evidenziare che a trarre vantaggio dalla radicalizzazione dello scontro è soprattutto la retorica populista di Ahmadinejad; se da un lato l’inasprimento delle sanzioni inizia a far sorgere un certo malcontento nei confronti del presidente, dall’altro lato i continui appelli affinché l’Iran rinunci al proprio programma nucleare sono visti come un’ingerenza indebita, portando il popolo iraniano a stringersi ancora di più attorno alla bandiera di un Paese che, per quanto supposta canaglia, rimane comunque sovrano.
L’atomica degli ayatollah: tanto rumore per nulla?
Come comportarsi, dunque, di fronte ai desideri nucleari di Teheran? Nei mesi scorsi, Kenneth N. Waltz, scuola neo-realista, ha esposto la propria visione in materia in un articolo su «Foreign Affairs» dal provocatorio titolo Why Iran should get the bomb(7). Nel proprio lavoro l’autore ribadisce, con applicazione al caso iraniano, quanto già espresso in un precedente contributo: quando si tratta di armi nucleari, «more may be better»(8). La tesi di fondo è che, nell’attuale era atomica, le armi nucleari contribuiscano al mantenimento di quell’equilibrio di potenza essenziale per garantire la sicurezza internazionale.
Perché, dunque, «l’Iran dovrebbe dotarsi della bomba»? Waltz prepara il campo per la propria tesi dipingendo tre possibili conclusioni per la crisi nucleare iraniana. La prima è l’abbandono del programma nucleare da parte del governo di Teheran a seguito dell’effetto congiunto di negoziati diplomatici e sanzioni; scenario alquanto improbabile di fronte alla determinazione iraniana. La seconda possibile conseguenza è il compromesso: l’Iran accetterebbe di fermarsi a un passo dall’ottenimento della bomba, raggiungendo però la soglia della “nuclear breakout capability”, ovvero la capacità potenziale di costruire e testare un ordigno nucleare in tempi relativamente brevi. Se questo scenario potrebbe, pur se con molti se e molti ma, convincere Stati Uniti e paesi europei, sicuramente non rappresenterebbe un boccone facile da digerire per Tel Aviv, la quale ha più volte esplicitamente ribadito che la sola capacità di arricchimento da parte di Teheran rappresenta “una minaccia inaccettabile”. Israele persisterebbe dunque nella propria personale strategia di sovvertimento del programma nucleare iraniano attraverso sabotaggi e assassini mirati, portando l’Iran a ritenere che la sola breakout capability non rappresenti un deterrente sufficiente. Il risultato sarebbe dunque, ancora una volta, l’impasse nucleare. Il terzo possibile scenario delineato da Waltz vede l’Iran proseguire con il proprio programma nucleare fino alla conclusione dello stesso e alla presentazione al mondo delle proprie – fiammanti – armi nucleari. A quel punto, sul palcoscenico internazionale andrebbe in replica la stessa scena madre a cui si assiste a ogni allargamento del club nucleare: le grandi potenze farebbero la voce grossa contro l’aspirante membro, dipingendolo come un’intollerabile minaccia, per poi fare quello che hanno sempre fatto: imparare a conviverci.
Fuor di metafora, nel disegno di Waltz, dotandosi dell’arma atomica le new entry del club nucleare andrebbero a bilanciare la potenza militare di altri Stati dell’area, con il risultato finale dell’accresciuta stabilità, a livello tanto regionale quanto internazionale. In questo senso, sarebbe proprio il monopolio atomico di Israele, e non l’ambizione nucleare iraniana, a minacciare la stabilità del Grande Medio Oriente: «il potere, dopo tutto, implora di essere bilanciato».
Una presa di posizione, quella di Kenneth Waltz, che ha incontrato le ostilità di molti analisti che siedono dalla parte opposta dello scottante tavolo nucleare. Diverse sono le argomentazioni avanzate da chi sostiene la necessità di prendere provvedimenti per scongiurare l’incubo dell’atomica degli ayatollah, andando ad arricchire il ricco filone della sopracitata retorica anti-iraniana, che, sebbene in taluni casi giustificata dalle assai discutibili prese di posizione da parte del regime di Teheran, di certo non aiuta al fine della distensione delle relazioni né tantomeno al miglioramento del clima negoziale. Quali sono, dunque, queste argomentazioni? In primo luogo, vi è la supposta irrazionalità del decisore politico. Tralasciando le dinamiche dello scontro al vertice in atto nella Repubblica Islamica – che di fatto rendono difficile individuare un decisore politico unitario – gli analisti rintracciano elementi di irrazionalità tanto nell’irruento Mahmoud Ahmadinejad quanto nell’ombroso ayatollah Ali Khamenei. Anche chi è disposto a riconoscere nei seppur poco presentabili leader della Repubblica Islamica un barlume di razionalità, teme che l’acquisizione dell’arma nucleare possa spingere Teheran ad assumere una postura internazionale più aggressiva, riprendendo – o di fatto continuando – la propria azione di sponsor del terrorismo internazionale. La grande paura per eccellenza è però quella della proliferazione nucleare nella regione: il completamento del programma nucleare iraniano innescherebbe una pericolosa corsa agli armamenti in una delle aree più instabili del pianeta.
Una via d’uscita è possibile?
Quel che è certo, è che quando si parla di Iran il quadro è di gran lunga più complesso di quanto possa essere incasellato in qualsiasi teoria interpretativa. Sono molti, infatti, gli aspetti da tenere in considerazione quando si guarda al complesso protocollo iraniano; su uno scacchiere fatto di sospetti reciproci, occasioni perdute e accordi mancati, l’Iran e la comunità internazionale giocano quotidianamente una partita che difficilmente può essere vinta ma che nessuno può permettersi di perdere. La chiave di volta passa inevitabilmente da Washington: il riconoscimento del ruolo di potenza regionale di Teheran e la disponibilità al risanamento della lunga ferita aperta nel 1979 renderebbe la Repubblica Islamica sicuramente più incline al compromesso di quanto non facciano aspre sanzioni e dura retorica. Tra Washington e Teheran c’è però come sempre Tel Aviv: lo spettro dell’attacco preventivo paventato dai falchi israeliani aleggia tanto sulla leadership obamiana paralizzata dall’imminente tornata elettorale quanto sull’élite di governo iraniana, dilaniata da un aspro scontro al vertice.
D’altra parte, il raggiungimento di una soluzione attraverso la via negoziale sembra allontanarsi sempre di più. L'optimum sarebbe ottenere un risultato che consenta a tutte le parti in gioco di salvare la faccia: una soluzione che permetta all'Iran di evitare l’umiliazione e mantenere il namus – l'onore – e contemporaneamente che dia rassicurazioni concrete alla comunità internazionale, in particolar modo a Israele. Quest'ultimo ha visto deteriorarsi la propria posizione strategica a seguito degli sconvolgimenti degli ultimi mesi: il cambio di leadership in Egitto e il risveglio di una mai sopita conflittualità nel vicino Libano come risultato del caos siriano non fanno certo dormire sonni tranquilli a Tel Aviv.
Non è un mistero che tra Netanyahu e Obama non scorra buon sangue; Israele sta già mettendo alla prova i nervi dell’attuale amministrazione e non è escluso che, laddove dovesse percepire che il “muro di ferro”(9)sul quale è seduto non è più sufficiente a difendere il proprio precario posto al sole, potrebbe decidere di mettere gli Stati Uniti di fronte al fatto compiuto. Sarebbe, questo, lo scenario peggiore per un Paese che non può venire meno al proprio ruolo, per quanto scomodo, di padrino politico di Tel Aviv. L'opinione comune all'interno dei circoli di potere israeliani è che, dovesse Obama venire rieletto, non vi sarebbe alcuna possibilità di ottenere l'appoggio di Washington. Sembra pertanto che, se bombardamento deve essere, questo sarà entro il 6 novembre, a campagna elettorale ancora aperta, approfittando del fatto che Obama avrebbe serie difficoltà a smarcarsi dall'accusa di immobilismo in politica estera rivoltagli dal Gop.
Vi è da dire però che la posizione di Netanyahu non appare al momento condivisa: molte sono infatti le resistenze allo strike preventivo all’interno dello stesso establishment militare(10). Se queste resistenze dovessero venire superate, per Washington si aprirebbe un nuovo incubo mediorientale: non solo verrebbe risucchiata, suo malgrado, in una situazione di conflitto che non potrebbe essere più distante dalla sua attuale volontà, ma si troverebbe di fronte alla grande paura che da dieci anni a questa parte è tornata ad agitare i sonni di repubblicani e democratici: lo spettro del declino. Per quanto Romney possa puntare il dito contro l’immobilismo di Obama e fare la voce grossa contro il bad guy Ahmadinejad, la sensazione è che anche un suo eventuale mandato sarebbe segnato da ristretti margini di manovra. La sensazione, dunque, è quella di un’inesorabile impotenza. Il prossimo presidente americano, chiunque egli sia, dovrà affrontare una situazione che sembra non avere vie di uscita: se un Iran nucleare sembra una spaventosa minaccia, l'uso della forza rischia di aprire nuovi inquietanti fronti di combattimento in un'area già di per sé burrascosa, e per di più in un momento nel quale gli Stati Uniti stanno cercando di disimpegnarsi dal fronte mediorientale per giocare l'altra grande partita del secolo – quella con la Cina. Il proseguimento di un negoziato nel quale nessuno sembra credere veramente appare sempre più come l’estremo tentativo di rimandare l’irrimandabile, ovvero il momento in cui Teheran presenterà al mondo il risultato del proprio programma nucleare. E, per quanto attualmente entrambi desiderino essere eletti, c’è da scommettere che né Obama né Romney vorrebbero essere presenti in quel giorno.
(1) Il discorso integrale è consultabile al sito internet http://www.timesofisrael.com/full-text-of-mitt-romneys-address-in-jerusa....
(2) L’intero programma è disponibile al sito internet http://www.gop.com/2012-republican-platform_home/.
(3) J.M. JONES, Mormons Widely Favor Romney; Jewish Voters Back Obama, 8 giugno 2012, http://www.gallup.com/poll/155111/mormons-widely-favor-romney-jewish-voters-back-obama.aspx.
(4) Il calo di 10 punti percentuali viene imputato in parte all’atteggiamento tiepido di Obama nei confronti di Israele ma soprattutto farebbe parte della generale diminuzione di consenso nei confronti dell’attuale presidente.
(5) Letteralmente “prendere a botte”; in senso figurato, tale tattica si configura come il ripetuto attacco verbale nei confronti di un Paese, teso a delegittimarne reputazione e credibilità.
(6) Ultimo impero persiano prima della conquista islamica, governato dalla dinastia sasanide dal 224 al 651, il cui territorio comprendeva gli odierni Iran, Iraq, Afghanistan, Siria orientale, Caucaso, parte della Turchia e dell’Asia centrale, la fascia costiera orientale della penisola arabica e alcune regioni del Pakistan occidentale. Sotto il dominio sasanide, la civiltà persiana raggiunse il proprio apogeo, estendendo la propria influenza culturale anche oltre i confini dell’impero.
(7) K. WALTZ, Why Iran Should Get the Bomb. Nuclear Balancing Would Mean Stability, in «Foreign Affairs», vol. 91, n.4, luglio/agosto 2012, pp. 2-5.
(8) K. WALTZ, The Spread of Nuclear Weapons: More May be Better, in Adelphi Papers, n. 171, London, International Institute for Strategic Studies, 1981.
(9) Espressione coniata dallo storico israeliano Avi Shlaim, esponente della nuova storiografia israeliana. A. SHLAIM, The Iron Wall: Israel and the Arab World, New York, W.W. Norton, 2001.
(10) Tra le personalità che si oppongono allo strike preventivo, vi sono il capo del Mossad Tamir Pardo, il capo di Stato Maggiore Benny Gantz, il direttore dello Shin Bet Yoram Cohen, nonché il presidente Shimon Peres. Si veda N. BARNEA, S. SHIFFER, Israel’s Top Brass Torn Over Possible Iran Attack, in «Al-Monitor», 13 agosto 2012, http://www.al-monitor.com/pulse/politics/2012/08/for-and-against-an-atta....