Pubblicato su ISPI (https://www.ispionline.it)

Home > Il mondo che verrà: 10 domande per il 2018

Il mondo che verrà: 10 domande per il 2018

Martedì, 26 Dicembre, 2017 - 08:15
Dossier speciale

Il mondo del 2017 ha assistito a grandi “inizi” (anche se non sempre nuovi) e a grandi “conclusioni” (anche se non sempre definitive). È stato l’anno dell’insediamento di Trump e della disfatta – quella territoriale – dell’ISIS; dell’ascesa di un impetuoso principe ai vertici della monarchia saudita e dell’elevazione di un presidente – Xi Jinping – a leader indiscusso di una Cina sempre più potente; è stato l’anno in cui in Europa, che ha perso un pezzo, è divampato l’indipendentismo e in cui i populismi sono stati sconfitti alle urne; l’anno in cui l’economia globale è tornata a crescere, ma anche quello delle minacce di Kim Jong Un e dell’esodo biblico dei Rohingya in Myanmar.

Ma cosa ci aspetta nel 2018? A questo interrogativo, l’ISPI ha voluto anche quest’anno dedicare un Dossier speciale sul “Mondo che verrà”, questa volta sviluppato in dieci domande, accompagnate da sei focus. Le risposte, come di consueto, sono affidate alle valutazioni di esperti di primo piano, a cui ancor prima che di “prevedere”, abbiamo chiesto di aiutarci a comprendere.

Scarica il dossier completo in pdf

Il commento di Paolo Magri:

 

 10 DOMANDE PER IL 2018

1. Corea del Nord: sarà guerra? di Antonio Fiori

2. Iran e Arabia Saudita allo scontro? di Alberto Negri

3. Gerusalemme capitale: nuova intifada? di Ugo Tramballi

4. Ritorno foreign fighters: una minaccia? di Lorenzo Vidino e Francesco Marone

5. Migrazioni: flussi di nuovo in crescita? di Maurizio Ambrosini

6. Russia: Putin dopo Putin? di Giancarlo Aragona

7. Brexit e oltre: l’Europa si spacca? di Antonio Villafranca

8. Sicurezza: verso una difesa europea? di Giampiero Massolo

9. Effetto Trump: nuovo protezionismo? di Lucia Tajoli

10. Africa: grandi speranze deluse? di Giovanni Carbone

 

TO WATCH 2018

COUNTRY TO WATCH - Libano di Eugenio Dacrema

LEADER TO WATCH - Mohammed bin Salman di Armando Sanguini

ELECTION TO WATCH - Italia di Alberto Martinelli

ISSUE TO WATCH - Cyber e Fake News di Fabio Rugge

CRISIS TO WATCH - Siria e Iraq di Andrea Plebani

TREND TO WATCH - Usa VS Cina di Shaun Breslin

 

SONDAGGI A CONFRONTO

Crisi, minacce, leader: cosa ne pensano l'opinione pubblica e gli esperti

 

 

1. Corea del Nord: sarà guerra?

di Antonio Fiori, Università di Bologna

DIPENDE

Fino a non molti anni fa il regime nordcoreano era considerato come una ‘tigre di carta’ e la sua abilità nel dotarsi di missili nucleari intercontinentali veniva bollata come una possibilità estremamente remota. Ma gli sviluppi recenti compiuti in ambito missilistico dalla Corea del Nord non possono essere ignorati. La Corea del Sud e il Giappone si trovano già ampiamente nel mirino dei missili a corto e medio raggio di Pyongyang; almeno in teoria, pertanto, questi vettori potrebbero facilmente essere equipaggiati per il trasporto di armi di distruzione di massa, di tipo nucleare, batteriologico o chimico. 

Pyongyang si è strenuamente impegnata negli ultimi anni a compiere dei considerevoli passi in avanti verso l’acquisizione della condizione di stato nucleare, che per  il regime è vitale sia in chiave  interna  sia internazionale. Internamente, infatti, Kim Jong-un brandisce  tale strumento per mostrare ai suoi “sudditi” e all’élite politica di essere fermamente alla guida di una nazione assediata. Nei rapporti con l’esterno, le armi atomiche appaiono indispensabili  quale imprescindibile fattore di dissuasione per prevenire qualunque tentativo volto a condizionare – o persino a sovvertire – l’ordine retto dalla famiglia Kim. È quindi assolutamente poco plausibile, per i motivi appena esposti, che a questo punto il leader nordcoreano possa arrestarsi o, ancora peggio, fare inversione, dato che ciò lo delegittimerebbe enormemente, trasformandolo in una guida debole e incline a dare ascolto alle minacce delle grandi potenze. I precedenti di Saddam Hussein e Mu’ammar Gheddafi, peraltro, corroborano il convincimento nordcoreano che l’arsenale nucleare non rappresenti soltanto l’unica leva negoziale per ottenere una futura risistemazione politica della penisola fondata su condizioni più vantaggiose per Pyongyang, ma anche una polizza di ultima istanza per sventare una potenziale ‘decapitazione’ dello stesso Kim Jong Un.

La crescente assertività del Nord nel far sfoggio delle proprie crescenti capacità in ambito atomico, inoltre, può incarnare anche un espediente tattico per seminare zizzania e scompiglio fra i maggiori attori regionali, e, più in dettaglio, nell’alveo dei legami fra gli Stati Uniti e i propri alleati asiatici. Gli USA, nonostante le periodiche voci e speculazioni circa possibili sganciamenti dall’area, restano infatti l’attore di maggior peso dell’Asia orientale, potendo vantare un network di alleanze bilaterali – il cosiddetto sistema ‘hub and spokes’ – faticosamente eretto durante gli anni della Guerra Fredda. La chiave di volta per porre fine alla condizione di guerra, tecnicamente ancora in corso,  a cavallo del 38° parallelo e per dare una soluzione all’attuale crisi nordcoreana è, quindi, nelle mani degli americani. Nondimeno, come gli ultimi drammatici sviluppi della crisi dimostrano chiaramente, il governo statunitense possiede uno spettro piuttosto limitato di opzioni per impedire che la Corea del Nord progredisca ancora in ambito nucleare e missilistico, e ancor meno per forzare un eventuale smantellamento del suo arsenale. Le opzioni sul tavolo non sono particolarmente promettenti e, chiaramente, esse richiederebbero il costante sostegno di Pechino e Seoul.

In linea con le precedenti amministrazioni, l’obiettivo di Trump è quello di giungere ad una denuclearizzazione della Corea del Nord che sia completa, verificabile e irreversibile. Tale approccio, così come l’opinione diffusa in base alla quale il regime sia destinato a crollare, sembra però poco promettente. Nelle ultime settimane la possibilità di un intervento militare ai danni della Corea del Nord si è concretizzata chiaramente nelle parole del presidente americano Trump e degli uomini del suo governo. Gli Stati Uniti dispongono certamente di un ampio ventaglio di possibilità nell’area del Pacifico per intensificare la pressione contro Pyongyang ed, eventualmente, per intervenire militarmente ai suoi danni. Il Comando statunitense nel Pacifico possiede enormi capacità militari e Washington potrebbe mandare in appoggio un gruppo di portaerei e una notevole aliquota di sottomarini nucleari. Nondimeno, il ricorso all’opzione militare rappresenta l’eventualità più pericolosa e meno promettente in assoluto.

I presunti obiettivi sul territorio nordcoreano, come le rampe di lancio dei missili e i siti di stoccaggio delle armi nucleari, infatti, sono stati precisamente identificati grazie alle fotografie satellitari; molti altri impianti e depositi sono invece presumibilmente nascosti all’interno di profondissimi tunnel sotterranei, al riparo dai satelliti occidentali. Sarebbe, quindi, virtualmente impossibile colpire e distruggere tutti questi siti simultaneamente per mezzo di incursioni aeree o di forze speciali. Qualunque tipo di intervento militare, quindi, comporterebbe un altissimo grado di rischio e incertezza. Anche nel caso in cui i raid statunitensi dovessero concentrarsi esclusivamente sulle basi missilistiche, il conflitto potrebbe immediatamente amplificarsi mietendo un numero altissimo di vittime, in particolare civili. D’altro canto, persino un intervento militare a tappeto riuscirebbe, con tutta probabilità, a ritardare, ma non ad arrestare definitivamente lo sviluppo di missili nucleari a lungo raggio da parte di Pyongyang.

Lo scenario sarebbe ovviamente molto diverso nel caso in cui fosse lanciata un’azione militare preventiva che includesse un’invasione su larga scala del paese. Ciò, tuttavia, richiederebbe l’invio di un massiccio numero di soldati dagli Stati Uniti e dai paesi alleati. Un conflitto di questo genere si protrarrebbe verosimilmente per settimane o addirittura mesi, e potrebbe avere delle conseguenze poco prevedibili. Uno scenario di guerra in cui si facesse ricorso meramente ad armi convenzionali comporterebbe la morte di almeno un milione di persone, ma tale stima aumenterebbe drammaticamente nel caso di impiego di armi nucleari.

La possibilità di un conflitto non è, comunque, escludibile a priori: per le ragioni già specificate non sembra plausibile che la Corea del Nord faccia un passo indietro sul programma nucleare o missilistico; nel caso in cui gli Stati Uniti dovessero percepire una minaccia reale ai loro danni non esiterebbero probabilmente a sferrare un attacco, con conseguenze disastrose per la penisola coreana e, soprattutto, per la stabilità della regione del nordest asiatico.

torna all'indice ↑

 

 

2. Iran e Arabia Saudita allo scontro?

di Alberto Negri, Sole 24 Ore e Ispi

SI

Sì, ma ancora per procura. L’Arabia Saudita non è in grado di condurre direttamente una guerra contro l’Iran e nel caso accadesse può farlo soltanto con il decisivo sostegno americano. E questo nonostante le spese di Riad per la difesa siano state nel 2016 di circa 64 miliardi di dollari e quelle iraniane di 12. Anche i dati dell’economia sono nettamente a favore dei sauditi che vantano un Pil di 650 miliardi di dollari mentre gli iraniani intorno ai 400 miliardi di dollari. Per non parlare della produzione petrolifera: quella saudita è più che doppia rispetto a quella iraniana. Il confronto tra le due economie può diventare ulteriormente penalizzante per l’Iran se gli americani decidessero di imporre nuove sanzioni a Teheran.

I dati sulla potenza militare pendono dal lato iraniano per numero di soldati e in alcuni settori, ma i sauditi possono contare su un arsenale tecnologicamente più avanzato. Eppure i sauditi, che pure godono dell’appoggio aereo degli americani, non riescono neppure a battere la resistenza degli Houthi sciiti zayditi dello Yemen che di recente non solo hanno lanciato un missile vicino a Riad, con il probabile aiuto degli Hezbollah libanesi come addestratori, ma hanno sanguinosamente sfidato Riyadh facendo fuori immediatamente l’ex alleato ed ex presidente Abdullah Saleh quando ha annunciato di volere aprire negoziati con l’Arabia Saudita.

La guerra tra Riad e Teheran resta quindi sempre una guerra per procura e si potrebbe dire anche per fortuna: basti pensare a cosa potrebbe significare in termini di rifornimenti petroliferi sui mercati vedere in fiamme i terminal del Golfo.  

Lo scontro, cominciato con lo scisma tra sciiti e sunniti originato della battaglia di Kerbala nel 680, risale in tempi più recenti al 1979, anno della rivoluzione iraniana che con l’Imam Khomeini non solo spazzò via l'effimero impero dello Shah ma fece tremare anche le monarchie assolute del Golfo. Per contrastare la repubblica islamica, l’Arabia Saudita e gli emiri del Golfo finanziarono la guerra di Saddam Hussein contro l’Iran: 50-60 miliardi di dollari vennero inutilmente bruciati nelle paludi dello Shatt el Arab insieme a un milione di morti. Teheran per quella guerra durata otto anni non ha mai perdonato i sauditi: era questa un’altra puntata del secolare conflitto tra arabi e persiani.

Lo scontro è una rivalità di potenza per il controllo del Golfo ma è anche ideologico-religioso per l’influenza nel mondo musulmano. Con la sua teocrazia Khomeini ha realizzato una repubblica dove sia pure in modo assai controllato e manovrato dall’alto si svolgono elezioni da 37 anni mentre l’Arabia Saudita è una monarchia assoluta in pugno a una dinastia familiare con cinquemila prìncipi del sangue che rivendica il titolo di Custode della Mecca e della Medina.

I due sistemi sono antitetici e per gli sciiti il fondamentalismo wahabita è diventato un termine usato come insulto: “takfiri” per Teheran sono i sauditi ma anche i jihadisti dell'Isis. A loro volta i sauditi sono soliti denigrare gli sciiti come miscredenti. La scontro ha quindi assunto una connotazione marcatamente settaria che ovviamente non facilita gli accordi.

Dopo la guerra irachena nel Golfo per l’occupazione del Kuwait, i rapporti tra i due paesi erano migliorati durante la presidenza di Hashemi Rafsanjani ma le tensioni sono riesplose con la caduta di Saddam nel 2003 e l’occupazione americana dell’Iraq. Questo è stato vissuto dai sauditi come un tradimento degli americani che hanno assegnato il potere alla maggioranza sciita emarginando i sunniti che prima controllavano la Mesopotamia ed enormi risorse energetiche. È stato così che l’Iran ha esteso la sua influenza tra gli sciiti dell’Iraq mettendo in agitazione il fronte sunnita e i sauditi che hanno sostenuto al Qaeda, il Califfato, Jabhat al-Nusra e altri gruppi jihadisti in funzione anti-iraniana e anti-Assad.

L’idea dei sauditi era quella di spezzare la cosiddetta Mezzaluna sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi: un asse strategico che dall’arco del Golfo, attraverso la Mesopotamia, arriva fino al Mediterraneo.

Questo è il motivo strategico per cui gli iraniani considerano le loro frontiere reali mille chilometri più avanti rispetto a quelle ufficiali sullo Shatt el-Arab, come ha del resto dichiarato pubblicamente il generale Qassem Soleimani

La guerra in Siria e la campagna saudita in Yemen contro gli Houthi sciiti sono gli ultimi due capitoli del faccia a faccia tra iraniani e sauditi. In Siria l’Iran vuole mantenere al potere Assad e ora, dopo l’intervento militare della Russia, ha accentuato la sua presenza con l’esercito regolare e i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione. Riad continua a insistere perché Assad venga sbalzato dal potere ma di fatto, insieme alla Turchia e al fronte sunnita, ha perso questa guerra mentre non riesce a vincere neppure quella nel “cortile di casa”, in Yemen, una sorta di Vietnam arabo.

Per questo lo scontro si è fatto ancora più acceso: vincerà non solo chi ha più risorse, tenuta e alleati ma chi saprà attuare la strategia più sofisticata e lungimirante. 

torna all'indice ↑

 

 

3. Gerusalemme capitale: nuova intifada?

di Ugo Tramballi, Sole 24 Ore e Ispi

NO

Il giorno in cui Hamas aveva deciso di “riaprire le porte dell’inferno”, due dei primi tre razzi lanciati contro Israele erano caduti dentro la striscia di Gaza. Contemporaneamente nei Territori occupati, in Cisgiordania, i “tre giorni della collera” proclamati da Fatah e dall’Autorità palestinese erano passati con molti piccoli scontri con la polizia israeliana ma senza l’attesa partecipazione di massa.

A dispetto del grande dispiegamento di forze, a Gerusalemme e nelle strade della West Bank erano intervenuti solo gli agenti della polizia di frontiera d’Israele: un contingente dell’esercito era stato schierato ma non aveva mai dovuto intervenire. È questo l’inizio di una nuova Intifada? No. È la prova del disperato sfinimento di un popolo, il palestinese, in cerca di una via d’uscita da cinquant’anni di occupazione; abbandonato dai paesi arabi avvicendatisi in settant’anni d’interessato sostegno della causa palestinese, retrocessi all’ultimo posto fra le priorità regionali.

I giornali tendono a definire Intifada qualsiasi protesta palestinese. Ma il significato della parola – un sussulto, lo scrollarsi di dosso qualcosa, in questo caso l’occupazione – è politicamente più preciso: è una sollevazione popolare. La recente serie di assalti all’arma bianca contro gli israeliani, chiamati “l’Intifada dei coltelli”, era un insieme di atti individuali, per quanto ripetuti e sanguinosi. La prima Intifada dal 1987 al ’93, è chiamata delle pietre perché fu una rivolta popolare spontanea e disarmata che si trasformò in un fenomeno di disobbedienza di massa con scioperi e boicottaggi: moralmente, prima che per cause di sicurezza nazionale, spinse gli israeliani ad iniziare il processo di pace a Madrid e poi a Oslo, per porre fine a un’occupazione che la maggioranza degli israeliani trovava ingiusta.

La seconda Intifada dal 2000 al 2005, chiamata di al-Aqsa, fu provocata da una visita di Ariel Sharon sulla Spianata delle moschee, a Gerusalemme. Anche quella fu un’irrefrenabile rivolta popolare. Ma rispetto alla prima fu armata, vennero compiuti molti attentati terroristici e il risultato finale fu opposto: convinse gli israeliani dell’inutilità di una trattativa di pace con i palestinesi.

La causa delle proteste di questi giorni è di quelle che in passato avrebbero provocato una guerra, non una rivolta. In teoria è una gigantesca umiliazione, lo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme con l’implicito riconoscimento di quest’ultima come capitale dello stato d’Israele. Tutto questo senza una contemporanea ammissione che la parte Est, araba, della città un giorno sarà la capitale di uno stato palestinese. È il riaccendersi di un problema che i governi arabi, soprattutto i più moderati e filo-occidentali, avrebbero voluto evitare. Le loro proteste sono servite più ad assecondare le opinioni pubbliche che a opporsi concretamente alla scelta unilaterale dell’amministrazione Trump.

Tuttavia, se lo spostamento dell’ambasciata avrà un seguito politico (militare è altamente improbabile), non avverrà a Gaza e nei Territori. Tre guerre nella striscia fra il 2008 e il 2014, e la seconda Intifada hanno provocato vittime e distruzioni dalle quali non è facile riprendersi e riorganizzarsi. Un’intera generazione di potenziali leader palestinesi è chiusa nelle carceri israeliane.

Gli effetti della decisione di Donald Trump riguardano soprattutto la regione. Mentre l’Isis è sconfitto in Iraq e Siria, e in quest’ultima diminuisce l’intensità della guerra civile, Netanyahu e Trump hanno riacceso le luci sul conflitto israelo-palestinese da anni dimenticato. Il problema è di nuovo fra le prime questioni irrisolte nella regione con una difficoltà in più: rispetto al passato, l’Iran adesso è alle frontiere d’Israele nel Libano del Sud controllato da Hezbollah e vicino al Golan siriano.

Su un piano più ampio, oltre la regione, si apre la gara fra chi cercherà di essere il prossimo mediatore del conflitto. Donald Trump ha reso ineludibile ciò che si era sempre saputo ma diplomaticamente taciuto: gli Stati Uniti non sono mai stati un honest brooker, un mediatore equidistante fra israeliani e palestinesi. Emmanuel Macron e Vladimir Putin stanno già facendo i gesti necessari per assumere il ruolo di arbitri del più lungo conflitto della storia contemporanea.

 torna all'indice ↑

 

 

4. Ritorno foreign fighters, una minaccia?

di Lorenzo Vidino e Francesco Marone, Ispi

SI

L’azione dei cosiddetti foreign fighters viene spesso presentata come una grave minaccia alla sicurezza. Il fenomeno non è certamente inedito. Già in passato vi erano state ondate di combattenti, anche di matrice jihadista, diretti verso aree di conflitto all’estero, come l’Afghanistan, la Bosnia e l’Iraq. Nondimeno, la recente mobilitazione di mujahidin verso la Siria e l’Iraq ha presentato ritmi e dimensioni senza precedenti: stime recenti segnalano, in totale, oltre 40.000 combattenti, da più di 110 paesi. Tra questi almeno 6.000 sono partiti dall’Europa, con una significativa differenza da paese a paese; gran parte dei foreign fighters del Vecchio Continente proviene infatti da quattro Stati: Francia (oltre 1.700 individui), Germania (oltre 900), Regno Unito (circa 850) e Belgio (circa 480). In questo contesto, il contingente italiano appare di dimensioni relativamente modeste, con 125 individui censiti ufficialmente dalle autorità.

I foreign fighters possono, in primo luogo, offrire il proprio contributo nel teatro di guerra. In secondo luogo, da una prospettiva occidentale, la minaccia principale è costituita dall’eventualità che questi individui possano ritornare nel paese di origine o in altri Paesi occidentali con l’intenzione di portare a termine o quantomeno di supportare attacchi terroristici, approfittando delle competenze e abilità, dei contatti e dello status sociale che hanno acquisito sul campo di battaglia.

Schematicamente si possono infatti indicare quattro esiti o traiettorie principali nel percorso dei foreign fighters jihadisti in Siria e Iraq: 1) morte in battaglia; 2) prosecuzione dei combattimenti nel teatro di guerra; 3) trasferimento verso altre aree di conflitto; 4) ritorno nei paesi di origine.

È chiaro che la crisi militare dell’auto-proclamato Califfato in Iraq e Siria, messa ulteriormente in evidenza dalla recente perdita di città cruciali come Mosul e Raqqa, ha aumentato la probabilità del verificarsi delle ultime due opzioni.

A questo proposito, vale la pena di segnalare alcune stime recenti disponibili su quello che, come accennato, è di gran lunga il più ampio contingente nazionale in Occidente, quello francese: nel mese di dicembre 2017 le autorità di Parigi hanno dichiarato che su circa 1.700 foreign fighters francesi partiti per la Siria e l’Iraq dal 2013, approssimativamente 400-450 sono stati uccisi, 250 sono ritornati in Francia, 500 sono ancora nella zona del conflitto. Rimangono quindi circa 500 individui di cui di fatto sono state perse le tracce.

In relazione all’intero continente europeo, secondo stime del 2017, il 30% dei combattenti stranieri era già rientrato dall’area del conflitto. A questo proposito, è opportuno evidenziare che non tutti i reduci sono necessariamente pericolosi: alcuni potrebbero essere disillusi e disposti ad abbandonare l’ideologia jihadista; d’altra parte, è chiaro che altri potrebbero essere interessati a proseguire la lotta con metodi terroristici.

Com’è noto, la possibilità che un foreign fighter ritorni nel paese (o nella regione) di origine tragicamente si è già realizzata, anche in Occidente. Basti pensare alla cellula belga dello Stato Islamico responsabile dei gravi attentati del 13 novembre 2015 a Parigi e del 22 marzo 2016 a Bruxelles, che comprendeva numerosi militanti con precedenti esperienze di combattimento in Siria e Iraq.

Secondo il database originale degli attacchi jihadisti compilato da ISPI e dal Programma sull’Estremismo della George Washington University, su 91 attentatori che hanno portato a termine attacchi in Europa e Nord America dalla proclamazione del “califfato” (29 giugno 2014) al 15 dicembre 2017, 14 vantavano esperienze di combattimento all’estero: una minoranza di attentatori (15%), quindi, che si è però rivelata particolarmente pericolosa: infatti la letalità media degli attacchi (nel complesso, 6 morti per attacco) sale notevolmente quando sono coinvolti foreign fighters (quasi 30 morti per attacco).

In conclusione, i foreign fighters di ritorno possono rappresentare una minaccia seria alla sicurezza, offrendo un contributo diretto o indiretto all’esecuzione di attacchi terroristici, anche più complessi e sofisticati della media.

torna all'indice ↑

 

 

5. Migrazioni: flussi di nuovo in crescita?

di Maurizio Ambrosini, Università di Milano e Ispi

NO

Il 2018, per quanto è possibile prevedere, non vedrà un aumento degli sbarchi in Italia e quindi neppure delle richieste d’asilo.

In realtà, sebbene sbarchi e  richieste di asilo abbiano occupato la scena mediatica negli ultimi anni, i numeri effettivi non sono mai stati drammatici. A fine 2016 erano 250.000 tra richiedenti asilo e rifugiati riconosciuti (dati Unhcr, 2017). L’Italia accoglieva 4 rifugiati per ogni 1.000 abitanti, il Libano 169, la Giordania 80, la Turchia 40, la Svezia 30. Fino a due anni fa inoltre solo una frazione degli sbarcati chiedeva asilo in Italia. Nel 2014, su 170.000 arrivate dal mare nel nostro paese meno di 70.000 avevano richiesto protezione internazionale alle autorità italiane. Poi l’Ue ci ha imposto gli hotspots, i nostri vicini hanno inasprito i controlli alle frontiere, e le domande di asilo sono cresciute, raggiungendo nel 2016 la cifra di 123.482. La quota rispetto agli sbarchi è passata dal 37% del 2014 al 56% del 2015 al 68% nel 2016. Dunque l’aumento, comunque relativo, delle richieste di asilo è più l’effetto di scelte politiche a noi avverse che della crescita del fenomeno, reale ma assai più contenuta.

Nella fase attuale gli accordi con il Niger e soprattutto con governo e tribù libiche, insieme alla campagna di discredito nei confronti delle Ong impegnate nei salvataggi in mare, hanno drasticamente ridotto gli arrivi. Una buona notizia per la politica interna, una pessima notizia per chi cerca asilo e per chi considera una priorità la tutela dei diritti umani.

Bloccata una rotta, chi fugge da situazioni critiche ne cerca un’altra. Va in questo senso la ripresa, sia pure modesta, della rotta verso la Spagna. L’effetto principale delle politiche di contrasto dei transiti terrestri e marittimi è quello di rendere i viaggi più costosi e pericolosi. Quella che viene presentata alle opinioni pubbliche come lotta ai trafficanti, è in realtà una politica di chiusura verso i richiedenti asilo. È improbabile però che basti un anno per trovare rotte alternative, allestire le basi logistiche necessarie, acquisire la compiacenza delle autorità in grado di favorire od ostacolare il passaggio, far circolare le informazioni e far ripartire l’industria delle migrazioni a pieno regime.

Il principale rischio per la strategia della chiusura italo-europea è che finiscano i soldi investiti per riconvertire gli ex-spietati trafficanti, condannati in ogni sede come mostri dell’umanità, in partner necessari e persino rispettabili, dopo il loro arruolamento per la sorveglianza esterna delle frontiere, con scarso riguardo per i metodi utilizzati. L’ampio consenso di cui godono le nuove politiche di chiusura, anche tra gli elettori e gli opinionisti di centro-sinistra, è un eloquente e triste indicatore della considerazione in cui sono tenuti i diritti umani. Gli esiti probabili delle prossime elezioni politiche produrranno nuovi inasprimenti, anziché una contro-svolta umanitaria.

Se anche il quadro dovesse evolvere nel corso dell’anno, i migranti trovassero nuove rotte, le istituzioni internazionali riuscissero a scardinare gli accordi con i libici, i soldi per finissero, è comunque improbabile che nel 2018 gli sbarchi si riportino ai livelli del 2016 e della prima parte del 2017.

torna all'indice ↑

 

 

6. Russia: Putin dopo Putin?

di Giancarlo Aragona, Ispi

SI

Pur scontato, l’annuncio che Putin si ricandiderà alla presidenza della Federazione Russa, ha suscitato speculazioni sulle prospettive che si apriranno dopo quello che, a costituzione vigente, dovrebbe essere il suo ultimo mandato.

Nessuno dubita che Putin sarà rieletto. Al di là dell’uso spregiudicato delle leve di potere, propaganda e patronato di cui potrà fare uso, egli gode di genuina e larga popolarità soprattutto nella “Russia profonda”. Anche per la prossima tornata non si profilano concorrenti in grado di proporre programmi alternativi credibili. Nemmeno Navalny, qualora gli fosse stato consentito di partecipare, avrebbe potuto impensierire seriamente Putin.

Quello che occorrerà osservare sarà la percentuale di consensi che confluirà sul longevo presidente e, in particolare, la percentuale dei partecipanti al voto. Quanto più bassa dovesse essere l’affluenza alle urne, tanto più apparirà evidente la cinica sfiducia della popolazione verso i meccanismi politici, indebolendo la narrazione putiniana che la “democrazia amministrata”, da lui instaurata, rappresenta una fase di un cammino propedeutico all’affermazione di una democrazia matura.

In questo contesto, potrebbe rivelarsi un azzardo l’annuncio di Putin di candidarsi da indipendente. Così facendo, si protegge dal disincanto dei russi nei confronti della politica. Ma una modesta partecipazione al voto o un consenso inferiore ai livelli attesi suonerebbero come delusione o stanchezza del popolo nei confronti della sua persona.

Da queste variabili dipenderà in parte il modo in cui si svilupperà il prossimo mandato presidenziale.

Non manca chi prevede che, dal momento della rielezione, Putin diverrà progressivamente quello che, nel gergo politico anglo-sassone, viene definito un “lame duck”, cioè una anatra zoppa, indebolendo la sua presa sulle dinamiche del paese, a cominciare dalla capacità di influenzare la lotta per la successione. Pur non priva di fondamento, una analisi del genere deve fare i conti con la realtà della Russia di oggi.

È vero che numerosi fattori, connessi a motivi di immagine, di faticosa evoluzione della società civile ed alle dinamiche in seno ai centri di potere, rendono improbabile che il Cremlino progetti per la seconda volta di aggirare la norma costituzionale che impone per la presidenza il limite dei due mandati consecutivi. Né appare più plausibile la ripetizione della scappatoia della staffetta con un presidente di facciata, Medvedev o altro. Nel 2024, pertanto, Putin dovrebbe fare un reale passo indietro, senza escludere peraltro che gli venga riservato un qualche ruolo ritagliato ad hoc per lui.

Tuttavia, coloro che appartengono al ristretto ambito da cui verosimilmente emergerà il suo successore, non possono aver dimenticato i precedenti e sanno che, a dispetto delle controindicazioni possibili, il Cremlino, se lo ritenesse necessario, non esiterebbe ad utilizzare tutte le leve di potere di cui dispone, in diritto ed in fatto, per mantenere un ampio margine di controllo sul corso del paese.

Inoltre, la fitta rete di clientele da lui creata sia negli apparati dello stato, civili, militari e di sicurezza, che nei centri decisionali politici ed economici, salvaguarderà la capacità di Putin di non farsi emarginare.

Queste considerazioni non contraddicono la previsione che la lotta tra i potenziali aspiranti sarà durissima ma, salvo drammatici imprevisti, l’attuale presidente farà ancora sentire la sua autorità.

Lo scenario più plausibile per i prossimi sei anni è che, a dispetto di inevitabili momenti di tensione negli equilibri di potere, soprattutto verso la conclusione della presidenza, stabilità e continuità saranno le parole d’ordine.

Una prospettiva del genere dovrebbe indurre le correnti più diffidenti nei confronti di mosca, negli stati uniti e nei paesi europei centro-orientali, a non sperare che il prossimo ed ultimo mandato di Putin porti ad un indebolimento del paese o ad un caos da sfruttare.

Quindi, ammesso che, prima di un credibile chiarimento sulle interferenze nella campagna presidenziale americana e di progressi nella crisi ucraina, sia realistico riannodare un dialogo costruttivo tra Occidente e Mosca, non sarebbe saggio, in attesa di ipotetici tempi più propizi, lasciar cadere ogni possibilità che si aprisse per riportare le relazioni con la Russia su un binario di maggior comprensione reciproca, se non di cooperazione.

 torna all'indice ↑

 

 

7. Brexit e oltre: l’Europa si spacca?

di Antonio Villafranca, Ispi

SI

L’Europa si è già spaccata e Brexit ne è l’esempio più lampante. Il punto per il 2018 non è tanto capire se ci saranno altri “exit”, quanto piuttosto verificare su quali e quanti dossier l’Europa si spaccherà ancora. Il 2018 sarà infatti ancora un anno di spaccature, e sempre più a “geometrie variabili”. Se una volta queste ultime identificavano gli ambiti in cui alcuni paesi erano disposti o pronti a collaborare di più rispetto agli altri, adesso sembrano rappresentare soprattutto i dossier su cui essi si dividono, assumendo posizioni via via più distanti tra loro. Tutto ciò con un’aggravante: la tradizionale ricerca del compromesso tramite il “log rolling” – ovvero la disponibilità di un paese ad appoggiare la richiesta forte di un altro paese in un dossier per poi avere il suo appoggio su un altro dossier ritenuto più importante - appare sempre più difficile. Perché questa logica funzioni appieno è infatti necessario un quadro cooperativo continuo e ineluttabile. Certamente non quello che caratterizza l’Ue di oggi. Questa via al compromesso si presenta dunque sempre più impervia e spinge gli stati a ragionare dossier per dossier. A massimizzare sempre e in ogni momento il proprio guadagno, o quanto meno a ostacolare il guadagno dell’altro.

In questo quadro cooperativo sempre più a tinte fosche, le linee di faglia nord-sud e est-ovest sono quelle più marcate. Ma non sono certamente le uniche. Le spaccature dentro l’Ue sono infatti molto più eterogenee – a geometrie variabili appunto – e in grado di cambiare rapidamente passando da un dossier all’altro.

Se si considera quello importantissimo di Brexit, tuttavia finora i 27 paesi membri hanno dato prova di una certa unità di intenti. Si è chiuso così con una vittoria di Bruxelles il primo round negoziale, quello in cui si dovevano dirimere alcune questioni chiave prima di arrivare al divorzio con Londra: dalla mobilità dei cittadini ai soldi dovuti da Londra alle casse Ue, dal periodo di transizione all’Irlanda del Nord. Di fronte a una Ue unita, il più delle volte è stata Londra a doversi adeguare e a tornare sui propri passi. Si tratta però di temi che interessavano trasversalmente tutti i paesi membri. Da nord a sud, da est a ovest dell’Ue, tutti avevano da guadagnare da quanto si riuscisse a strappare a Londra. Difficilmente questo sarà il caso il prossimo anno, quando i negoziati entreranno nel vivo e si dovrà decidere cosa ne sarà dei rapporti tra Ue e Gran Bretagna su temi come il commercio, i servizi, la circolazione dei capitali. Qui gli interessi nazionali sono molto più complessi ed eterogenei, e il rischio di spaccature a geometrie variabili è dietro l’angolo.

Dove invece le spaccature continuano a correre principalmente lungo l’asse est-ovest è il dossier migrazioni. Il Consiglio europeo di dicembre si è chiuso con un ennesimo nulla di fatto. L’oggetto del contendere è la riforma del Regolamento di Dublino. La Commissione aveva messo sul piatto, tra le altre cose, anche un piano di ricollocamenti permanenti dei migranti, e il Parlamento europeo si era già espresso positivamente. Ma dal gruppo di Visegrad è arrivato un secco no, che ha scatenato dure reazioni non solo dai più diretti interessati – Roma e Atene – ma anche da parte della Germania e della Francia. All’interno dei due fronti le differenze comunque non mancano, soprattutto in quello “occidentale”. Macron ha infatti già chiarito da tempo che la Francia non è disposta ad accogliere i migranti economici e Schengen rimane ancora sospeso per sei paesi tutti del blocco occidentale, Germania inclusa. Più unito invece il fronte orientale che sta dando prova di una bassissima propensione alla solidarietà intra-europea. E questo non mancherà di avere conseguenze. A partire dalle negoziazioni sul quadro finanziario pluriennale 2021-2027. I paesi membri dovranno decidere cosa ne sarà dei 1.000 miliardi di euro – spalmati in sette anni – del bilancio Ue, tanto più che verrà meno un importante contributore netto come Londra (oltre 10 miliardi di euro all’anno). Continuerà a crescere il malcontento tra i rimanenti contributori netti, soprattutto nei confronti dei poco solidali paesi dell’est, con la Polonia nel mirino con i suoi 80 miliardi di fondi strutturali assegnati al paese nel settennato 2014-2020. Tutto ciò peraltro mentre la Commissione va avanti verso la sospensione del voto polacco in Consiglio dopo le proposte illiberali di riforma della giustizia da parte del governo conservatore. Un nutrito gruppo di contributori netti, a partire dalla Germania, spingono per ancorare l’erogazione dei fondi strutturali al rispetto dei principi fondanti dell’Unione europea, tra cui appunto democrazia e solidarietà.

Dove invece la frattura continuerà a correre principalmente tra nord e sud è la governance della moneta unica. Le proposte di Macron per rilanciarla – anche tramite la figura del Ministro delle finanze – hanno un cammino tutto in salita. Nel 2018 rischiano di tornare momenti ad alta tensione. A forte richiesta di Germania e Paesi Bassi, la Banca centrale di Draghi procederà verso il “tapering”, ovvero la riduzione del ritmo di acquisto dei titoli (al momento 60 miliardi al mese) nell’ambito del proprio programma di “quantitative easing” (QE). I paesi del nord lamentano che questo non ha più senso dato che la crisi economica è ormai alle spalle e che anzi il QE disincentiva l’avvio di riforme strutturali e politiche di riduzione del debito nel sud dell’Europa, Italia in primis. Se a ciò si aggiungono le incognite legate all’esito delle elezioni italiane e alle perduranti debolezze del settore bancario, un nuovo rialzo degli spread sui titoli di stato potrebbe essere dietro l’angolo. Per l’Italia peraltro le tensioni potrebbero arrivare anche dall’estero. A tener banco non sarà solo crisi catalana. Malgrado alcuni recenti segnali positivi, il 2018 sarà infatti per Atene l’anno della prova del fuoco. Entro agosto la Grecia uscirà infatti dal suo terzo programma di salvataggio europeo in quasi dieci anni e punta a far ritorno sui mercati finanziari. Un ritorno che però è ancora irto di ostacoli e che non sarà necessariamente agevole. I mercati finanziari ci hanno ormai abituato da molti anni alla volatilità dei tassi sul debito ogni qual volta forti tensioni affiorano in Europa. Un destino che accomuna tutti gli indebitati paesi del sud Europa, e appunto l’Italia, il più indebitato di tutti. Con il rischio peraltro che il fronte del sud si spacchi perché troppo debole rispetto a quello del Nord e con un appoggio da parte della Francia di Macron su cui non contare molto, visto che gli stessi conti pubblici francesi di certo non brillano. E se lo sguardo si sposta ancora oltre, per ricomprendere le tensioni che arrivano dallo scenario internazionale – dal Mediterraneo/Golfo alle politiche di Trump, dalla Corea alla tenuta dell’accordo sul nucleare con l’Iran, dall’assertività russa a quella meno vistosa ma sempre più invasiva di Pechino – le fratture europee a geometria variabile rischiano di ripresentarsi.

Eppure alcuni segnali di ricomposizione ci sono. L’accordo sulla difesa comune è di certo ben lungi dal tradursi in un esercito europeo, ma è positivo perché segnala una ritrovata progettualità europea che mancava da troppo tempo. Ed è proprio questa la sfida per l’Ue nel 2018 e negli anni a venire: ritrovare la forza di progettare. Senza temere di abbattere quello che non funziona più, perché altrimenti le tante crepe e fratture rischiano di far crollare l’intera casa comune. 

torna all'indice ↑

 

 

8. Sicurezza: verso una difesa europea?

di Giampiero Massolo, Ispi

SI

Sì, ma anche dipende. Il Consiglio europeo riunitosi lo scorso 14 dicembre a Bruxelles ha varato ufficialmente la cosiddetta “Pesco”, la cooperazione permanente strutturata nel campo della difesa Ue. Tra gli Stati membri restano fuori dalla cooperazione solo la Gran Bretagna, in uscita dalla Ue ma da sempre contraria a una difesa comune europea, la Danimarca e Malta. Nel corso della celebrazioni di questo traguardo, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha parlato di “un sogno che diventa realtà” e ha sottolineato come “una forte difesa europea rinforza naturalmente la Nato”.

Non siamo alla nascita di un esercito europeo, ma a un accordo che servirà a facilitare la collaborazione europea nel campo industriale per lo sviluppo di nuove capacità e ad assicurare una maggiore prontezza operativa degli strumenti militari europei. Le capacità militari sviluppate in seno alla Pesco restano comunque nelle mani degli Stati membri, che hanno la facoltà di metterle a disposizione anche in altri ambiti, quali la Nato o l’Onu.

Fatte queste debite premesse, la questione che occorre approfondire è se questa recente evoluzione consentirà all’Europa, da un lato, di rafforzare il suo ruolo di contributore netto alla sicurezza globale, e, dall’altra, di conseguire un’autonoma capacità strategica di difesa. In altre parole: che difesa europea sta nascendo e per fare che cosa?

Per molti decenni il leitmotiv della cooperazione europea in tema di sicurezza e difesa ha assunto che esistesse una sostanziale divisione tra capacità di sicurezza “hard” e “soft”, e che all’Unione Europea spettasse di evolvere laddove non v’era duplicazione con la Nato, unico vero garante della “hard security” europea. Le nuove minace alla sicurezza hanno però modificato questa artificiosa ripartizione: come inquadrare, infatti, gli scenari di sicurezza caratterizzati da minacce ibride (hybrid warfare) e asimmetriche (migrazioni, terrorismo, cyber security, information warfare, …), o la gestione del post-conflict? Di fronte a queste sfide emergenti, che si aggiungono alle minacce tradizionali spesso intersecandole e stravolgendone le caratteristiche, è chiaramente percepita la necessità di un diverso approccio, capace di combinare sapientemente strumenti di “hard” e “soft” security, iniziative diplomatiche, assetti civili e aiuto alla sviluppo con mezzi militari e di intelligence. In questo scenario, è evidente che il successo futuro della difesa dell’Unione Europea dipenderà non più dal livello di specializzazione del suo ruolo vis-à-vis della Nato, ma dallo sviluppo di capacità nell’ambito di tutto lo spettro necessario (di tutto “quel che serve”), oltre che dall’individuazione di meccanismi decisionali sempre più efficaci e dalla capacità di interagire con la Nato in sinergia e senza sovrapposizioni.

Da questo punto di vista, la Pesco sembra senz’altro un passo nella giusta direzione. Collettivamente, infatti, l’Europa rappresenta il secondo investitore a livello mondiale nelle spese per la difesa, ma il risultato di questi sforzi è fortemente compromesso dalle duplicazioni tra gli Stati membri nello sviluppo di assetti e capacità, dalle carenze nella interoperabilità a livello europeo dello strumento miliare, e dalle dimensioni dell’industria europea, che sono troppo contenute per competere appieno sui mercati internazionali e beneficiare delle possibili economie di scala e per giustificare i necessari investimenti in ricerca e sviluppo. La Pesco rappresenta, in questo contesto, un’importante innovazione, perché prevede la revisione annuale coordinata della spesa militare degli Stati membri, che dovrebbe contribuire a limitare le inefficienze sopra ricordate, e istituisce il Fondo europeo per la Difesa, che fornirà incentivi finanziari per promuovere la cooperazione nel settore della difesa, dalla fase di ricerca alla fase di sviluppo congiunto di capacità. Lo sviluppo di un mercato europeo della difesa integrato al suo interno e che privilegi l’industria continentale è, nei fatti, un prerequisito per la capacità dell’Unione Europea di farsi portatrice di un contributo positivo alla sicurezza globale.

Più complesso, ad oggi, è invece definire la concreta autonomia strategica che le nuove iniziative saranno in grado di conferire all’Unione Europea, e le collegate questioni del burden sharing transatlantico e dei rapporti Ue-Nato. La Nato rappresenterà ancora per gli anni a venire una insostituibile organizzazione di sicurezza per legare le due sponde dell’Atlantico. Farne a meno, ammesso sia auspicabile, significherebbe comunque poter disporre di quei fondamentali enablers della sicurezza di cui l’Europa, semplicemente, oggi non dispone, così come dimostrano le operazioni militari del 2011 in Libia, dove non abbiamo potuto fare a meno del supporto degli Stati Uniti, che pure volevano rimanere politicamente sullo sfondo della crisi. Senza contare che l’autonomia strategica dell’Europa dipende anche dalla sua capacità di deterrenza nucleare, e che andrebbe dunque compreso fino a che punto i francesi, unica potenza nucleare europea nel post-Brexit, sono disposti a garantire all’intero continente europeo.

Occorre dunque procedere con realismo e con piena coscienza dei propri mezzi. Se questi non ci consentono di “lanciare il cuore oltre l’ostacolo”, ipotizzando nel breve periodo una Ue pienamente autonoma rispetto alla Nato, è però il dato politico delle recenti evoluzioni cui occorre guardare. E il dato politico che emerge è che si è pienamente affermata una nuova e diversa sensibilità nel continente europeo circa le emergenti minacce alla nostra sicurezza, e circa quanto è necessario fare per preparare un futuro in cui l’Europa potrà essere un contributore netto alla sicurezza globale, o, quantomeno, un attore capace di far fronte autonomamente agli scenari più prossimi.

torna all'indice ↑

 

 

9. Effetto Trump: nuovo protezionismo?

di Lucia Tajoli, Politecnico di Milano e Ispi

NO

Il presidente americano Trump ha messo al centro della propria campagna elettorale il concetto di “America First” che secondo le sue intenzioni include politiche di protezione del mercato americano dalle importazioni dall’estero e la revisione dei trattati commerciali in essere con altri paesi per garantire maggiori vantaggi agli USA. Uno dei suoi primi atti come presidente è stato infatti ritirare gli USA dalla Trans Pacific Partnership (TPP), un grande accordo commerciale tra diversi paesi americani e asiatici già firmato e in attesa di implementazione, apparentemente dando seguito a quanto promesso.

Tuttavia da allora, concretamente c’è stato poco seguito alle dichiarazioni protezionistiche. Trump ha dato più spazio al pragmatismo che chiedeva di mantenere aperti i rapporti commerciali americani piuttosto che alla retorica elettorale. Le imprese americane per produrre ed esportare devono importare da fornitori esteri e re-importare dalle proprie filiali collocate all’estero, e un vero protezionismo che aumentasse il costo delle importazioni e imponesse serie restrizioni le danneggerebbe parecchio. In questo sistema di scambi che coinvolge i produttori americani, anche la collaborazione con la Cina è centrale, e infatti Trump nel suo viaggio in estremo oriente ha mostrato toni nel complesso molto poco bellicosi verso questo paese, preoccupandosi piuttosto di cercare di concludere affari. Nei fatti, il sistema produttivo americano sa che il protezionismo sarebbe molto costoso e sicuramente non appoggerebbe il presidente su questa strada.

Anche relativamente alla revisione del NAFTA, l’accordo di libero scambio tra USA, Canada e Messico oggetto di forti critiche da parte di Trump, la questione è molto più complessa di quanto appaia dai messaggi del presidente su Twitter. Sebbene molti anche al di fuori dell’amministrazione USA giudichino opportuna una revisione dell’accordo a oltre venti anni dalla sua firma, non è per nulla ovvio che gli altri paesi coinvolti siano disposti a soddisfare le richieste americane. Dunque se si apre un negoziato che non riesce a portare ad una revisione condivisa, vi è il rischio di smantellare l’attuale area di libero scambio nordamericana. Questo preoccupa molte imprese americane in diversi settori, dall’agricoltura al settore automobilistico, che più volte, anche attraverso i governatori (anche repubblicani) degli stati che scambiano maggiormente con il resto del Nord America, hanno fatto sentire la propria voce in difesa del mantenimento di un mercato nordamericano aperto e integrato. Per esempio, la produzione del settore automotive – nonostante i marchi delle case automobilistiche siano USA – avviene di fatto su scala continentale attraverso supply chains internazionali che potrebbero essere interrotte dall’introduzione di nuove barriere agli scambi tra USA, Canada e Messico, con effetti negativi per l’intero settore americano dei mezzi di trasporto. Attraverso gli effetti negativi sulla competitività delle imprese, il protezionismo nel medio termine può facilmente distruggere posti di lavoro più che crearne e quindi rischia di indebolire Trump anche presso la sua base elettorale popolare. Per ora non pare quindi che la spinta protezionista di questa presidenza sia un pericolo effettivo.

Le dichiarazioni e gli atteggiamenti non sono però senza effetti. È infatti piuttosto rischioso il mancato appoggio degli USA al sistema di regole globali sul commercio internazionale costituito dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) che sì è osservato nell’anno trascorso. Nel corso del 2017, gli USA hanno bloccato la nomina dei giudici che si occupano delle controversie commerciali in ambito WTO, di fatto indebolendo la capacità del sistema di intervenire nelle dispute tra paesi. In passato gli USA sono stati uno dei maggiori fautori del WTO, ma questo atteggiamento è decisamente cambiato con l’attuale presidenza, dichiaratamente ostile al multilateralismo. Il “cattivo esempio” degli USA nel non appoggiare il WTO e nel perseguire strade unilaterali per trattare le politiche commerciali con altri paesi potrebbe essere seguito da altri governi, portando ad una situazione difficile sui mercati internazionali, se ogni paese dovesse perseguire unilateralmente i propri fini e venisse a mancare un sistema di regole condiviso.

Dunque, più che per un ricorso diretto al protezionismo e per la chiusura del mercato americano, questo nuovo corso degli USA potrebbe avere ricadute negative per gli scambi a livello globale proprio per il “nuovo corso” che rischia di instaurare.

torna all'indice ↑

 

 

10. Africa: grandi speranze deluse?

di Giovanni Carbone, Università di Milano e Ispi

NO

Le speranze non andranno deluse, se le correggiamo un po’. Abbandonando da un lato gli eccessi del cosiddetto Afro-pessimismo che dominò gli anni Ottanta e Novanta, e dall’altro quelli dell’Afro-ottimismo imperante all’inizio del nuovo millennio (salvo essere bruscamente interrotto nell’ultimo triennio), una visione positiva ma realistica dei progressi che attendono l’Africa subsahariana non andrà delusa.

Dopo la sorprendente crescita che ha rilanciato buona parte delle economie della regione tra il 2000 e il 2014, il crollo dei prezzi delle commodities e il mutamento dello scenario economico internazionale si sono tradotti in un secco rallentamento complessivo nel biennio successivo. Facendo seguito al modesto rimbalzo di quest’anno, il 2018 rappresenterà un anno di assestamento attorno ai tassi di crescita medi del 3,5%-4,0% attesi per gli anni a venire. Per la regione nel suo complesso – che, non dimentichiamolo, resta l’area più povera del mondo – si tratta di tassi poco brillanti.

Lo sguardo giusto sul 2018 e sugli anni successivi, tuttavia, deve considerare due precisazioni aggiuntive. La prima è che l’Africa subsahariana include sostanzialmente una cinquantina di stati, e se è vero che sono molte le dinamiche che li accomunano, ciò non toglie che i percorsi dei singoli paesi possano essere tra loro anche notevolmente diversi.

Il secondo, direttamente legato al primo, è che l’andamento della crescita è diventato molto più variegato di quanto non fosse negli anni passati. Nel 2018, ad esempio, il Fondo Monetario Internazionale prospetta un Pil in incremento del 8,5% in l’Etiopia e addirittura dell’8,9% in Ghana. Anche Costa d’Avorio e Senegal saranno sopra al 7%, e ben quindici altri paesi si trovano nella forchetta, pur sempre virtuosa, tra 5% e 7%. Al capo opposto si collocano però non solo tre piccoli paesi in recessione, ma soprattutto le tre maggiori economie regionali – Sudafrica, Nigeria e Angola, fortemente rallentate, le ultime due, nell’ultimo triennio – nessuna delle quali sfonda il modesto tetto del 2%.

Le traiettorie dello sviluppo economico dell’Africa subsahariana sono quindi in una fase di diversificazione, e – pur con possibili scambi di ruolo tra virtuosi e inguaiati – cammini divergenti saranno verosimilmente parte dello scenario che contraddistinguerà i prossimi anni. Al netto di casi che faticano a uscire dalle secche, tuttavia, non mancheranno i percorsi positivi. L’Africa non chiude quindi il cantiere delle trasformazioni avviate o accelerate negli anni passati. E i partner internazionali che ormai da tempo sono entrati in competizione tra loro per ben posizionarsi in questi mercati di frontiera mostrano di non fare marcia indietro, e anzi, in diversi casi, di rilanciare. Pechino, ad esempio, aveva già tolto ogni dubbio agli osservatori quando, in occasione dell’ultimo Forum on China-Africa Cooperation, mise sul tavolo risorse che ne garantiscono una presenza ancora in crescita in tutta l’area. E nella prima metà di quest’anno l’interscambio commerciale tra Cina e Africa ha fatto registrare un forte incremento (+19%). Sul fronte dell’Unione Europea, intanto, se è vero che il recente Summit con l’Unione Africana non ha portato grandi novità, le preoccupazioni securitarie generate da flussi migratori e minacce terroristiche stanno consolidando una maggiore (seppur controversa) attenzione per tutto ciò che sta alle spalle della sponda sud del Mediterraneo. La Germania, in particolare, proprio quest’anno ha nuovamente rimarcato il proprio interesse per l’Africa, utilizzando peraltro il G20 di Amburgo per un rilancio delle relazioni tra Berlino e le imprese tedesche, da un lato, e il continente africano dall’altro. L’Italia stessa – paese che, non avendo mai avuto in precedenza un presidente del Consiglio in carica in visita bilaterale a sud del Sahara, ha inanellato una sorprendente serie di quattro missioni in quattro anni (tre di Matteo Renzi, una di Paolo Gentiloni) – con la seconda Conferenza Italia-Africa, programmata alla Farnesina per il giugno 2018, mostra finalmente di mantenere una linea più continua nel tessere nuove relazioni con il continente africano.

torna all'indice ↑

 

COUNTRY TO WATCH - Libano

di Eugenio Dacrema, Università di Trento e Ispi

I libanesi non vogliono un’altra guerra. Questa è una delle poche solide certezze che qualunque visitatore straniero può apprendere velocemente vivendo nel paese. Non la vogliono perché sono quasi sette anni che ne vedono gli effetti in Siria, e non la vogliono perché poco più di 10 anni fa l’attacco israeliano del 2006 lasciò una scia di morti e distruzione nei quartieri più poveri di Beirut e nella valle della Bekaa. Ma i libanesi non vogliono un’altra guerra soprattutto perché già una, lunga e sanguinosa, hanno smesso di combatterla tra di loro solo 17 anni fa. Una delle guerre civili più lunghe della storia moderna, di cui la maggior parte della popolazione adulta serba ancora dolorosi ricordi. Una guerra la cui immagini e le cui cicatrici non sono mai davvero scomparse perfino dal quotidiano odierno dei libanesi. La linea tra est e ovest che per 15 anni aveva tagliato il fronte all’interno di Beirut è ancora lì, ricreata dalla auto-segregazione che le varie comunità si sono imposte durante la ricostruzione, a confermare che i rancori creati dal lungo conflitto sono lungi dall’essere sopiti. I cadaveri di cemento del vecchio Holiday Inn e dell’Opera House, sventrati da proiettili, bombe e mortai durante la guerra civile, sono ancora oggi uno spettacolo quotidiano per centinaia di migliaia di libanesi e di stranieri che attraversano la città. Troppo enormi per non essere visti, troppo lugubri per non generare ogni volta un brivido.

No, i libanesi non vogliono un’altra guerra perché non hanno mai veramente finito di fare i conti con quell’altra guerra, attorno ai cui effetti il fragile equilibrio sociale ed economico, sancito dai trattati di pace di Ta’if del 1990, si è lentamente coagulato. Ma i loro desideri stavolta potrebbero non bastare. Alla vigilia (forse) della fine di un’altra guerra civile, quella nella vicina Siria, la situazione odierna del Libano vede infatti troppi nodi cruciali che potrebbero far riesplodere le braci di tensioni che ancora consumano la società libanese sotto le ceneri della pace di Ta’if. Tra questi, almeno quattro meritano di essere analizzati più approfonditamente:

La “nuova” Hezbollah e la “nuova” Arabia Saudita: Durante i lunghi anni della guerra siriana, che dal 2013 ha visto il massiccio coinvolgimento delle milizie di Hezbollah a fianco del regime di Bashar al-Assad, i dubbi sugli effetti di questo coinvolgimento su Hezbollah hanno popolato le conversazioni nei bar di Beirut. “Hezbollah è indebolita dal lungo conflitto”, dicevano alcuni, “No, il conflitto l’ha temprata e resa militarmente più forte”, dicevano altri. Oggi, mentre il conflitto siriano appare vicino alla fine con la vittoria del regime di Assad, la realtà sembra pendere molto più a favore dei secondi. Hezbollah oggi è chiaramente più forte nonostante le molte perdite subite, comprese quelle di alcuni dei suoi comandanti più famosi. Le sue milizie sono numericamente superiori, meglio armate, e durante il conflitto hanno avuto modo di addestrarsi e accumulare esperienza al fianco di eserciti regolari e in scenari molto più complessi e diversificati rispetto a quelli del sud del Libano. All’opposto, i suoi avversari politici in patria hanno visto in questi anni il loro potere e le loro risorse decrescere stabilmente. Il grottesco episodio delle finte dimissioni del primo ministro Saad Hariri in Arabia Saudita è sintomo di tale debolezza, ma anche di una rinnovata determinazione dell’Arabia Saudita di re Salman e del figlio Mohamed a non lasciare che l’Iran modifichi troppo a proprio favore gli equilibri politici libanesi grazie alla rinnovata forza di Hezbollah, il suo proxy politico e militare nel paese. Tale ferma volontà rischia di spezzare l’unità del fronte sunnita, oggi guidato da Hariri, a favore di altre figure più radicali nella loro opposizione all’influenza iraniana come Ashraf Rifi, potente uomo politico di Tripoli. Da una parte, una tale strategia potrebbe trasformarsi in un boomerang, dividendo il voto sunnita e regalando il controllo del parlamento al fronte guidato da Hezbollah nelle prossime elezioni previste nella primavera del 2018. Dall’altra, però, essa potrebbe portare i sunniti sotto una nuova leadership molto più interessata della precedente ad alzare pericolosamente il livello del confronto con Iran e Hezbollah.

Israele alle porte: Ma la “nuova” Hezbollah non spaventa solo gli avversari interni e i loro sponsor internazionali. Israele vede infatti con crescente preoccupazione sia il significativo rafforzamento di Hezbollah sia la sempre più densa presenza iraniana nel sud-ovest siriano, pericolosamente vicino al confine del Golan. Israele ha fatto capire in più occasioni di non voler accettare una espansione dell’Iran e dei suoi proxy anche lungo il confine siriano e di essere pronta anche ad un massiccio intervento militare sia sul fronte libanese sia su quello siriano per evitarla. Voci si inseguono di una sorta di alleanza informale tra israeliani e sauditi, mediata dall’amico comune Donald Trump. Una alleanza potenzialmente esplosiva per la stabilità libanese.

La sorte dei rifugiati (vecchi e nuovi): Il Libano di oggi non conta solo i suoi quattro milioni circa di abitanti dotati di cittadinanza. Ci sono anche i quasi due milioni e mezzo tra rifugiati siriani, arrivati durante l’ultimo conflitto, e palestinesi, arrivati in Libano durante le molte guerre israelo-arabe dal 1948 in poi. Oltre un milione e mezzo (tra regolari e non) i primi, oltre mezzo milione i secondi. Alcuni sviluppi nel prossimo futuro potrebbero riaccendere le tensioni all’interno di queste comunità e tra queste comunità e il resto della cittadinanza libanese. Prima di tutto c’è la questione del ritorno dei rifugiati siriani al termine del conflitto. Nonostante la molta propaganda diffusa dai suoi mezzi di informazione sull’amore che tutti i siriani serbano per il loro presidente assediato da forze e complotti stranieri, anche la leadership di Hezbollah sa benissimo che, stanti così le cose, difficilmente la maggioranza dei rifugiati in Libano si sentirebbe al sicuro a ritornare in una Siria ancora saldamente controllata dal regime di Assad. Così come è chiaro anche che la loro permanenza in Libano è sempre più insostenibile per le fragili infrastrutture del paese e sempre meno tollerata dai libanesi stessi. Nei prossimi mesi, seppur sotto traccia, Hezbollah sarà quindi impegnata a usare il leverage conquistato durante il conflitto sul regime di Assad per riuscire a strappare qualche tipo di accordo che permetta il ritorno in sicurezza della maggior parte dei rifugiati siriani nel proprio paese. Una operazione non facile, nemmeno per l’abile leadership di “Partito di Dio”.

Nel frattempo, la rinnovata iperattività diplomatica dell’amministrazione Trump intorno alla questione israelo-palestinese ha messo in luce un nuovo consenso, ancora nascosto ma sempre più evidente, tra americani, israeliani e sauditi intorno alla questione di Gerusalemme e, soprattutto, intorno al diritto al ritorno dei profughi palestinesi all’estero. Dal 1948 in avanti i palestinesi in Libano sono infatti vissuti privi di cittadinanza e qualsivoglia diritto politico e civile, con la semplice promessa che un giorno un accordo di pace avrebbe garantito loro il ritorno in Palestina, una terra che la maggior parte di queste persone (e in molti casi anche i loro genitori e i loro nonni) non ha mai visto. Se il consenso saudita-israelo-americano, che prevede tra le altre cose la rinuncia ufficiale al diritto al ritorno, dovesse effettivamente guadagnare trazione, la sorte dei palestinesi in Libano tornerebbe al centro del dibattito nazionale. Alle proteste dei profughi (sia per il diritto al ritorno, sia per un trattamento migliore in Libano) si sovrapporrebbero rinnovate tensioni tra il fonte sunnita vicino all’Arabia Saudita, pronto a garantire loro la cittadinanza libanese o qualche tipo di surrogato, e il fronte guidato da Hezbollah e Iran contrario a questa possibilità in nome della difesa a oltranza del diritto al ritorno. Il conferimento della cittadinanza ai palestinesi, per la stragrande maggioranza sunniti, rischierebbe infatti di spostare significativamente gli equilibri demografico-politici a favore del fronte sunnita.

L’economia in bilico: Sullo sfondo di tutto questo c’è lo stato sempre più precario degli equilibri economici libanesi. Lo stallo politico di questi anni, dovuto alle tensioni generate dalla guerra civile siriana, ha di fatto bloccato ogni misura di risanamento dell’enorme debito pubblico e soprattutto dell’ancora più enorme deficit di partita corrente che caratterizza l’economia nazionale e che necessita ogni anno di crescenti investimenti esteri per essere sostenuto. Negli ultimi tre anni, le tensioni con le monarchie del Golfo hanno ridotto al minimo gli investimenti sauditi ed emiratini, mentre i crescenti venti di guerra che circondano il paese potrebbero mettere fine anche a buona parte degli investimenti della diaspora libanese, tradizionalmente altra grande fonte di finanziamenti esteri. Il rischio vero di una incapacità dell’economia nazionale di finanziare il proprio deficit di partita corrente è rappresentato dal potenziale drammatico crollo della valuta e del potere d’acquisto dei libanesi. Una crisi economica improvvisa e potenzialmente catastrofica andrebbe ad acuire, forse irrimediabilmente, rabbia e tensioni in una situazione politica già estremamente fragile. In passato ogni congiuntura critica per l’economia è stata sempre scongiurata dall’abilità dell’anziano presidente della banca centrale Riad Salamé, autore di vere e proprie magie finanziarie per mettere al riparo la valuta nazionale. Ma tempi difficili stanno arrivando, forse come mai prima d’ora. E stavolta perfino la magia potrebbe non bastare. 

torna all'indice ↑

 

LEADER TO WATCH - Mohammed bin Salman

di Armando Sanguini, Ispi

Il principe Mohammed bin Salman – anche detto MBS – è davvero l’ispiratore e protagonista di quella che un autorevole giornalista del New York Times ha definito la “primavera” saudita, ovvero uno spregiudicato rampollo di casa reale spinto da un’irrefrenabile ambizione di potere, per sé e per il ruolo regionale e internazionale del suo paese?

In realtà, questo personaggio appare come un'amalgama ancora in divenire. Pur giovane, ha avuto modo di conoscere bene i delicati meccanismi sui quali poggia il centro di gravità della casa reale saudita e del suo sistema di potere, assoluto ma cucito a doppio filo con un obbligato consenso familiare, religioso e tribale, nonché di un patto sociale che col tempo si è fatto decisamente impegnativo.

Li ha potuti vagliare, questi meccanismi, nei loro punti di forza e di debolezza: accanto a un padre pragmatico, scaltro, aperto al mondo, erede e deciso perpetuatore della dinastia degli al-Saud; a una madre dai mille contatti dentro e fuori la casa reale; ai due fratelli più giovani, più cosmopoliti di lui che, invece, si è formato nel paese, studiando da re. E proprio grazie a ciò è riuscito a rimetterli in un ordine nuovo, scalando, con la complicità del padre – ad una velocità impressionante, verosimilmente scandita dalla malferma salute di quest’ultimo – i gradini che lo hanno portato all’anticamera del potere reale: a 32 anni, sgretolando la sua piramide gerontocratica con altri coetanei della casa.

Dal padre e dal predecessore Abdallah ha preso le mosse per imprimere un’inedita accelerazione ad un processo di modernizzazione del paese che nessuno o pochi avrebbero ipotizzato. 

Ha aggredito l’oscurantista soggezione della donna così come la latitudine di intervento della polizia religiosa cui è stata sottratta la potestà di arresto.

Sta aprendo al turismo laico, al cinema; sta piallando le increspature della diffusa doppia morale, riscuotendo segnali di inquietudine peraltro sovrastati dal plauso della preponderante parte giovanile del paese.

Ha lanciato “Vision 2030”, un avveniristico programma di scomposizione e ricomposizione dell’intero sistema economico, fiscale, finanziario e sociale del paese con l’obbiettivo di portarlo a una tale diversificazione da emanciparlo dalla dipendenza del petrolio ed aprirlo al mercato finanziario e produttivo internazionale. Un programma tanto ambizioso quanto ancora incerto nella sua fattibilità finale che sta già portando ad un promettente calo significativo del deficit fiscale.

Ha sorpreso in questo contesto la scure della detenzione (dorata) fatta cadere su decine di appartenenti alla più illustre nomenclatura della casa reale e della società saudita nel nome della moralizzazione del paese: un’azione annunciata da tempo, ma alla cui messa in opera ben pochi, soprattutto all’estero, erano disposti a credere. La si è letta, non a torto, anche come una ruvida messa fuori gioco di potenziali avversari attuali e un avvertimento per altri ancora nell’ombra. E ha reso un non trascurabile introito – si parla di 100 miliardi di dollari – per le casse dello stato come contropartita della loro liberazione.

Sul versante internazionale, il giovane MBS ha mostrato di non nutrire alcun timore reverenziale per i “grandi” della terra e di essere anzi un estimatore della più disinvolta real politik nella spinta all’ampliamento delle alleanze e delle partnership (da Pechino a Mosca, da New Delhi a Tokyo, etc.).

Si è guadagnato la prima tappa della prima visita all’estero di Trump, e ne ha celebrato la ritrovata alleanza storica al cospetto di un parterre di alleati arabi e musulmani accomunati dall’ostilità nei riguardi dell’Iran sotto il dichiarato vessillo dell’antiterrorismo.

Ed è sul terreno della sfida con l’Iran per l’egemonia nella regione, che è politica ma anche religiosa nella concezione musulmana, e in quanto tale proiettata sull’intero mondo islamico, che MBS ha scritto pagine di rischiosa criticità.

Vedendovi la longa manus di Teheran si è lanciato alla testa di una coalizione araba in una guerra per procura in Yemen, che la legittimante condanna delle Nazioni Unite del colpo di stato perpetrato dagli Houthi e il pur ingente investimento umanitario non hanno salvato né dalla recriminazione generale per la strage di innocenti che ha provocato né dal rischio che si tramuti in un Vietnam saudita.

La rottura delle relazioni col Qatar ha seguìto in buona misura lo stesso paradigmatico sospetto. Che, poi, è divenuta rinnovata accusa di destabilizzazione regionale per bocca del primo ministro libanese Hariri, a motivazione delle sue dimissioni irritualmente annunciate da Riyadh e poi rientrate sulla base di una labile promessa di “neutralità” di Hezbollah, il grande sodale di Teheran.

Si tratta di un’accusa divenuta ormai oggetto di una vera e propria strategia politico-mediatica portata avanti con discreto successo a livello regionale e internazionale, in congiunzione con la lotta al terrorismo, di cui è difficile non vedere in MBS l’ispiratore. Come dell’accorta linea che sta conducendo per restare in gioco nel negoziato di Ginevra sulla Siria, dove è riuscito a mediare al ribasso la formazione della delegazione delle forze di opposizione, gradita a Mosca, con cui si stanno del resto saldando altri importanti punti di convergenza, petrolio fra tutti. Il recupero di un importante spazio di agibilità in Iraq è stato d’altro canto l’obiettivo nell’auspicato processo di stabilizzazione del paese e il rilancio a tutto campo del partenariato tra i due stati, benedetto dal premier Abadi. Contando, nell’uno e nell’altro caso, sull’appoggio di Washington sulla comunanza di interessi anti-iraniani con Israele e sulle remore russe a un dominante ruolo di Teheran nella regione.

La persistente crepa politico-settaria si è approfondita a causa della picconata sferrata da Trump con la nota decisione su Gerusalemme – che Teheran sta cavalcando – e si è allargata nello stesso campo sunnita con l’approccio radicale assunto da Ankara. Per Riyadh ciò rappresenta un aggiuntivo fattore di criticità che rischia di rendere ancor più problematica la tela negoziale sul processo di pace di cui Riyadh era ed è tuttora parte.

Per MBS, presto futuro re, il 2018 presenta un impegnativo orizzonte di sfide incrociate.

torna all'indice ↑

 

ELECTION TO WATCH - Italia

di Alberto Martinelli, Università di Milano e Ispi

Il rischio principale per l’Italia nell’anno elettorale deriva non dalla bassa crescita, dal momento che l’economia italiana ha ripreso a crescere più del previsto e non molto meno della media dei paesi Ue, ma dall’instabilità politica.

Il sistema politico italiano è tripolare e nessuna delle tre principali forze politiche riuscirà, infatti, ad ottenere la maggioranza nelle elezioni della prossima primavera, né alla Camera né al Senato. La nuovo legge elettorale recentemente approvata dal Parlamento, che prevede l’attribuzione di un terzo dei seggi in collegi uninominali, penalizza il Movimento 5 Stelle (M5S), che rifiuta qualsiasi alleanza pre-elettorale e, sia pur in minor misura, anche il centro-sinistra, che è diviso tra il Partito Democratico (PD) e la neonata formazione della sinistra radicale Liberi e Uguali; favorisce invece la coalizione di centro-destra, in cui i due maggiori partiti, Forza Italia e Lega Nord, pur avendo entrambe consensi inferiori a M5S e PD, possono vincere nella maggioranza dei collegi uninominali unendosi insieme a Fratelli d’Italia e prevalere su tutti gli altri.

I sondaggi elettorali a diversi mesi dal voto, con una percentuale di astenuti e indecisi superiore a un terzo, e in presenza di una nuova legge elettorale, non sono molto attendibili. Consideriamo comunque il quadro che delineano: una prevalenza del M5S vicina al 30% (se consideriamo le percentuali attribuite ai singoli partiti) o una prevalenza del centrodestra (se sommiamo le percentuali di tutti i suoi partiti alleati) intorno al 33%, che tradotta in seggi diventa tuttavia più consistente se aggiungiamo la maggioranza dei collegi uninominali in cui il suo più forte potere di coalizione fa la differenza, indicandola come la più probabile vincitrice (al momento) seppur molto lontana dalla maggioranza. Con il M5S che “congela” un terzo dei voti senza ottenere la maggioranza, ma riuscendo a impedire agli avversari di ottenerla, in caso di vittoria relativa del centrodestra (o di assai meno probabile vittoria del centrosinistra, che oggi è diviso ma che dopo le elezioni potrebbe trovare un accordo), si ripeterebbe la ben nota situazione tipica della cosiddetta “Seconda repubblica”, in cui coalizioni eterogenee sono capaci di vincere le elezioni, ma incapaci di dar vita a un governo coeso con un programma coerente e priorità condivise.

Questa situazione di perdurante instabilità e ridotta efficacia dei governi è conseguenza, oltre che della struttura molto frammentata del sistema partitico italiano, della bocciatura della riforma costituzionale del 2016 e dalla rinuncia alla connessa legge elettorale “Italicum” (anche a seguito delle modifiche apportate con discutibili argomentazioni dalla Corte costituzionale, in particolare l’eliminazione del doppio turno).

Se questo è lo scenario probabile – ovvero un risultato elettorale non risolutivo – le possibili alternative del dopo-elezioni sono: 1) un governo di minoranza del partito o della coalizione con la maggioranza relativa dei voti, che cerca di ottenere in parlamento i voti di volta in volta necessari con uno schema “a geometria variabile”; governi siffatti sono deboli per definizione, anche in paesi con una cultura politica più orientata alla collaborazione istituzionale come la Germania (dove Angela Merkel non a caso rifiuta questa opzione), e lo sarebbero a maggior ragione in Italia dove dominerebbero i veti incrociati con effetti paralizzanti.

2) Un’alleanza post-elettorale tra PD e Forza Italia o, meno probabile, tra M5S e Lega che, ammesso sia realizzabile dopo i reiterati solenni dinieghi di tutti gli interessati, configurerebbe coalizioni ancora più eterogenee, litigiose e inefficaci delle coalizioni di centrodestra o centrosinistra.

3) Un governo del presidente della Repubblica (come i governi Ciampi, Dini e Monti), che affida l’incarico a una personalità non strettamente identificabile con un partito specifico; ma le cosiddette “riserve della repubblica” scarseggiano: il presidente del Senato Pietro Grasso ha fatto la scelta costituzionalmente eterodossa di essere il leader di un partito e anche la presidente della Camera Laura Boldrini si è schierata anziché rimanere super partes, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è stato confermato tra le polemiche per altri sei anni, e il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi termina il suo mandato nell’ultimo trimestre del 2019.

4) Il ritorno alle urne dopo sei mesi o al più tardi un anno, magari con, nel frattempo, un governo Gentiloni bis; ma in tal caso la prospettiva di un’altra elezione non risolutiva sembra al momento l’ipotesi più probabile.

L’instabilità politica dell’Italia nel prossimo anno è quindi destinata a crescere con almeno tre gravi conseguenze: la prima, sprecare l’ennesima occasione di attuare riforme necessarie in una congiuntura economica relativamente favorevole; governi deboli, poco coesi e di durata limitata non avrebbero infatti la forza di prendere decisioni impegnative;

la seconda, aumentare la vulnerabilità di un paese con un assai pesante debito pubblico di fronte alla speculazione internazionale, anche perché il ruolo di protezione della BCE non può continuare a lungo nella sua forma attuale;

la terza, emarginare l‘Italia in un anno decisivo per le sorti dell’Unione Europea, in cui Brexit induce a una ridefinizione di ruoli e rapporti di forza tra gli stati membri che richiederebbe governi stabili e leader autorevoli e rispettati.

torna all'indice ↑

 

ISSUE TO WATCH - Cyber e Fake News

di Fabio Rugge, Ispi

Non è possibile immaginare un futuro senza internet, ma molto più complesso è immaginare che internet avremo in futuro. Riusciamo solo parzialmente a prevedere l’impatto delle nuove tecnologie sulle nostre vite private e sulle nostre società, ma è certo che il “mondo reale” e lo spazio cibernetico s’intersecheranno in maniera sempre più indistinguibile. Che internet avremo in futuro è pertanto una questione che ci riguarda da vicino: la nostra libertà e la nostra sicurezza dipenderanno, in misura crescente, da quanto libero e sicuro sarà il web. Abbiamo ragione d’essere preoccupati.

Internet consente, con relativa facilità e impunità e senza alcun riguardo verso le frontiere nazionali, di attaccare e manomettere le infrastrutture critiche di potenziali nemici, oltre che di sottrarre, modificare ed esporre al pubblico enormi quantità di informazioni sensibili. Gli attori principali della minaccia cibernetica sono gli Stati e i loro proxies, ma anche attori non-statali (hacktivists, criminalità organizzata transnazionale, in un futuro prossimo probabilmente anche organizzazioni terroristiche) sono capaci di creare danni devastanti. Lo spazio cibernetico rappresenta dunque un dominio in cui gli stati già oggi preparano (e certamente in futuro faranno) la guerra, e un veicolo straordinariamente efficace per propagare una minaccia silente, liquida, asimmetrica.

Tutto ciò ha un impatto sul “mondo reale” e sulle relazioni internazionali, modificando significativamente il nostro panorama di sicurezza. Esistono infatti diversi casi recenti di tensioni internazionali che sono state originate da attacchi cibernetici (ad esempio quelle seguite al randsomware “Wanna Cry”, che ha colpito nel maggio scorso centinaia di migliaia di computer in quasi tutto il mondo, e del quale la Casa Bianca ha accusato esplicitamente, nei giorni scorsi, la Corea del Nord), così come esistono casi di attacchi cibernetici in risposta a situazioni di crisi internazionale (ad esempio l’attacco del maggio scorso alla news agency statale del Qatar, con la pubblicazione di un discorso pro-Iran da parte dell’emiro che, in realtà, non c’è mai stato).

Siamo probabilmente solo agli albori di una escalation: gli stati sviluppano sempre più autonome capacità d’attacco e usano il dominio digitale per perseguire politiche di potenza, alimentando, collettivamente, un enorme “paradosso della sicurezza” (la mia sicurezza è la tua insicurezza). Le armi cibernetiche degli Stati, una volta impiegate, possono poi essere reingegnerizzate da parte di attori non statali, con un concreto rischio di proliferazione, sulle reti, di capacità distruttive. È pertanto verosimile che il 2018 confermerà la crescente militarizzazione dello spazio cibernetico, e diventa sempre più concreto il rischio di un evento catastrofico (magari come danno collaterale di una campagna cibernetica con altri obiettivi), di crisi internazionali originate da attacchi cibernetici, e di attentati perpetrati attraverso le reti da parte di organizzazioni terroristiche.

La seconda ragione di apprensione circa le minacce che transitano sulla rete riguarda invece l’uso di internet per destabilizzare le nostre società, o per influenzarle secondo convenienze esogene. Le operazioni di influenza sono sempre esistite nell’arsenale degli Stati, ma lo spazio cibernetico è uno straordinario moltiplicatore della loro efficacia in ragione delle sue intrinseche caratteristiche: il suo essere globale e indifferente ai confini geografici, l’assenza di barriere all’ingresso, il significativo grado di anonimità da esso consentito (e dunque il facile ricorso ad agenti provocatori), la possibilità di replicare virtualmente all’infinito il messaggio propagandistico, la mancanza di intermediazione e l’immediatezza nella trasmissione delle informazioni. La tecnologia, inoltre, consente di automatizzare la propagazione dei messaggi destabilizzanti attraverso programmi (comunemente chiamati “bots”) capaci di interagire con gli umani impersonando persone reali. In un contesto nel quale le opinioni pubbliche si formano sempre più su blogs e social networks, le campagne di influenza online riescono facilmente a distrarre, disinformare, disorientare le opinioni pubbliche con verità divergenti, istillando il senso del dubbio e polarizzando il dibattito pubblico. L’obiettivo ultimo è quello di minare il consenso interno dal quale traggono la loro forza le istituzioni, rendendo queste ultime più arrendevoli rispetto agli interessi che si vogliono promuovere.

Attacchi cibernetici e operazioni di influenza possono poi rafforzarsi a vicenda (“cyber-enabled information warfare”): la tanto discussa operazione di influenza russa nel corso delle ultime elezioni presidenziali americane, ad esempio, è al contempo un attacco cibernetico (il furto dai computer del Partito Democratico di informazioni sensibili) e una operazione di influenza (la diffusione di questo materiale per alimentare una campagna di denigrazione ai danni del candidato democratico e far perdere fiducia nel processo elettorale stesso).

Il clamore suscitato dal fenomeno delle cosiddette “fake news” e dai tentativi di condizionare dall’esterno il dibattito pubblico in diversi paesi, tra cui l’Italia, in coincidenza di tornate elettorali o referendarie, è un buon indice del generale livello di apprensione suscitato da queste “guerre informative”. Per un paese come l’Italia, che si appresta nel 2018 a una campagna elettore “all’ultimo voto”, c’è motivo di tenere alta la guardia.

torna all'indice ↑

 

CRISIS TO WATCH - Siria e Iraq

di Andrea Plebani, Università Cattolica di Milano e Ispi

Il rapido, e per molti versi inaspettato, collasso delle ultime roccaforti dello “Stato Islamico” (IS) nella regione siro-irachena ha segnato il fallimento del progetto statuale proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi nell’estate del 2014. Al di là della sua rilevanza a livello simbolico, strategico e geo-politico, la scomparsa della “macchia nera” che per anni ha stretto nella sua morsa buona parte delle regioni che si dipanano tra la Siria nord-orientale e l’Iraq nord-occidentale ha impresso una forte accelerazione a un processo di ridefinizione degli equilibri interni ed esterni all’area che aveva iniziato a palesarsi in maniera significativa già nel corso del 2016. Questo si è tradotto, assieme alla crisi che ha finito coll’attanagliare il progetto indipendentista del Kurdistan iracheno (Kri), nel fallimento del tentativo di superare un “ordine Sykes-Picot” accusato di aver contribuito in misura determinante all’instabilità dell’intero quadrante mesopotamico e levantino. In buona sostanza, con tutta probabilità, i confini delle moderne sintesi statuali siriana e irachena paiono destinati a rimanere invariati.

Tutto è cambiato quindi affinché nulla dovesse realmente cambiare? Non esattamente.

La crisi siro-irachena ha infatti alterato profondamente la geografia politica di un’area oggetto di una competizione fatta di rivalità manifeste, ma anche di giochi d’ombra dal peso specifico sempre più rilevante. A livello regionale, Ankara è la potenza che ha pagato il prezzo più elevato. Non solo ha sacrificato una partnership solida con Damasco sugli altari della “primavera siriana”, ma deve fare ora i conti con l’ostilità di una serie di formazioni ultraradicali che le hanno imposto un pesante tributo di sangue e con lo spettro di un fronte meridionale in gran parte controllato da forze che essa ritiene essere un tutt’uno con il PKK. La scelta di appoggiare il fronte anti-referendario ha inoltre indebolito l’asse decennale che l’aveva unita a Erbil, a tutto vantaggio di un Iran mai così influente. Seppur più defilate, anche Riyadh e Doha hanno subito pesanti contraccolpi. Nel tentativo di aggregare il fronte di opposizione a Bashar al-Assad e di porlo sotto la loro tutela, esse sono cadute preda di una competizione sempre più evidente che, per quanto estesa anche ad altri fronti, si è palesata in tutta la sua intensità in Siria, contribuendo alla progressiva frammentazione delle forze ostili al regime. La stessa Teheran, però, che senza alcun dubbio è la potenza che ha tratto i maggiori vantaggi dalle crisi degli ultimi anni, deve fare i conti con una situazione che presenta molteplici incertezze. La sua ascesa ha, infatti, soffiato sulle ceneri di uno scontro che era rimasto latente per anni, rievocando antichi timori e favorendo il consolidamento di un fronte anti-iraniano sempre più esplicito e aggressivo.

A livello extra-regionale, le crisi che hanno investito Siria e Iraq hanno spinto Mosca e Washington a invertire una linea politica che sembrava ormai essersi assestata sul non-coinvolgimento diretto con esiti, però, alquanto differenti. L’intervento di Putin ha riaffermato la posizione russa nella regione dopo decenni di “disengagement” forzato, garantendogli voce in capitolo su files che, solo fino a pochi anni fa, apparivano di esclusivo appannaggio degli Stati Uniti e dei loro principali alleati e su un panorama post-bellico che si preannuncia ricco di opportunità. Esso ha inoltre portato in dote una relazione con Ankara che, per quanto lungi dall’essere idilliaca, ha contribuito ad allontanare ulteriormente Erdogan dai propri partner occidentali e ad aprire nuove fratture nel sistema Nato. Dal canto suo, seppur tra mille contraddizioni, la nuova amministrazione Trump ha adottato un approccio muscolare che, dopo anni di red lines violate e promesse disattese, l’ha riportata al centro dell’azione. In Iraq questo le ha permesso di rafforzare l’asse con il governo di Haider al-Abadi, mentre in Siria essa può contare su una partnership con le forze del Pyd che potrebbe permetterle di mantenere un’influenza significativa su un teatro a essa tradizionalmente ostile.

È sul piano interno, però, che i cambiamenti in corso paiono più significativi.

In Iraq, la vittoria sulle coorti dello “Stato Islamico” ha chiuso una crisi che ha minacciato le fondamenta stesse dello stato. Per quanto cruciale, però, la sconfitta di IS non può da sola porre fine alla lunga fase di instabilità che ha attanagliato la terra dei due fiumi che, ancora una volta, è chiamata a tradurre in realtà le speranze sorte con la caduta del regime nel 2003. Come accennato, la crisi di Kirkuk dell’autunno/inverno 2017 ha lasciato in eredità molteplici sfide. Se la leadership curda è uscita dal confronto con le ossa rotte, nessuno è in realtà emerso come assoluto vincitore. La linea dura adottata da al-Abadi, forse più imposta dalle circostanze che voluta, ne ha consolidato la posizione, ma rischia di minare le fondamenta di un progetto politico che pareva distinguersi per apertura al dialogo e disponibilità al confronto. Una piattaforma che, nelle intenzioni del premier e con le elezioni previste nel 2018, avrebbe dovuto fungere da spazio di aggregazione in grado di superare i particolarismi degli ultimi anni e di rappresentare una seria alternativa al polo guidato dall’ancora estremamente influente Nuri al-Maliki. E che avrebbe dovuto avere nelle controparti curde un elemento centrale. Senza un serio processo di riconciliazione nazionale, il rischio è che le prossime elezioni restituiscano uno spettro politico ancora una volta profondamente frammentato e segnato da agende inconciliabili. Vi è, poi, da affrontare la questione della ricostruzione dello spazio – fisico, ma anche socio-politico ed economico – occupato in questi lunghi anni da IS. Intere regioni escono distrutte da un conflitto che le ha dilaniate internamente, che ha azzerato buona parte delle leadership faticosamente emerse nell’Iraq post-2003 e che rischia di lasciare in eredità una stagione di odi e vendette i cui strascichi potrebbero proseguire per anni. Senza considerare i rischi connessi al ritorno degli uomini di al-Baghdadi che, secondo molti, avrebbero scelto consapevolmente di sacrificare le loro ultime basi urbane in Iraq e, soprattutto, in Siria per nascondersi nell’ombra, preservare le proprie capacità operative e attendere una nuova opportunità.

In Siria, invece, il collasso delle posizioni jihadiste, unito a una parabola del conflitto che pare ormai propendere apertamente a sfavore delle forze di opposizione, ha contribuito a “semplificare”, per quanto possibile, uno scenario che sin dal principio si era contraddistinto per la sua profonda complessità e frammentazione. Venuto meno IS, che in molte aree aveva agito da filtro tra le principali fazioni in lotta, regime e forze democratiche siriane hanno fatto a gara per contendersene le spoglie, in previsione di una fase negoziale che si preannuncia lunga ma ormai inevitabile. Il resto dell’opposizione, però, vive una fase di crisi profonda che la definizione delle de-escalation zones non può mascherare. La loro istituzione, infatti, pur avendo contribuito ad alleviare le sofferenze di intere comunità che per anni hanno vissuto un vero e proprio stato di assedio, ha in un certo senso certificato la “ghettizzazione” delle forze anti-regime e la loro ormai completa separazione. Il fronte meridionale è sempre più frammentato internamente e soggetto a una pressione crescente da parte di forze governative e milizie loro alleate. Le enclave di Ghouta e Homs sono da tempo isolate e con poche speranze di invertire una situazione che rischia di divenire sempre più disperata. La stessa Idlib, che con la caduta di Aleppo è divenuta il principale punto di riferimento delle forze anti-regime, vive una fase di tensione crescente tra coloro che spingono per una soluzione negoziale della crisi, o – quantomeno – per l’apertura di canali di confronto, e chi rimane ancorato a una visione dicotomica della realtà che non lascia spazio ad alcuna relazione con il nemico. Una posizione, quest’ultima, che appare ormai sempre più difficile da sostenere, questo anche alla luce di un’intesa russo-turco-iraniana che, per quanto ancora lontana dall’essere completa, mira ad arrivare a una progressiva stabilizzazione del quadrante siriano e a un dialogo nazionale ormai non più procrastinabile.

torna all'indice ↑

 

TREND TO WATCH - Usa VS Cina

di Shaun Breslin, University of Warwick

I leader cinesi non sembrano doversi impegnare troppo per mettere in discussione il predominio delle potenze esistenti nell'ordine mondiale; quelle stesse potenze stanno riuscendo perfettamente a indebolire le loro posizioni senza bisogno di aiuto da parte della Cina. Il ritiro degli Stati Uniti di Trump dall'accordo di Parigi è un esempio relativamente raro di abbandono deliberato della leadership da parte di un paese senza pressioni da parte di altri stati (anche Brexit probabilmente passerà alla storia come una ferita autoinflitta). Se a questo si aggiungono la crisi finanziaria globale (e le sue conseguenze economiche tuttora in atto) e gli effetti di quelli che potevano sembrare processi di democratizzazione in Africa settentrionale e in Medio Oriente, l'ordine mondiale liberale guidato dagli Stati Uniti non sembra avere molti successi di cui vantarsi.

O almeno così sembrerebbe dal punto di vista della Cina. Nonostante le notevoli sfide interne che la attendono, Xi Jinping ha sottolineato che la Cina ha fiducia nel proprio percorso di sviluppo, nel proprio sistema politico. Anche se questa fiducia affonda le radici in ciò che la Cina ha fatto in patria, è rafforzata dalla percezione di un declino occidentale, e si contrappone nettamente all'incertezza e alle turbolenze dell’Occidente.

Questo accostamento è anche alla radice di molti dei nuovi concetti di relazioni internazionali (o quantomeno degli slogan) che la Cina ha lanciato negli ultimi anni. Che si tratti di un "nuovo tipo di relazioni internazionali", della "diplomazia delle grandi potenze" o della creazione di una "comunità dal destino comune", il messaggio è chiaro. La Cina rispetta la sovranità, tenta di risolvere i conflitti in modo pacifico, tratta gli altri paesi alla pari, cerca la democrazia e la parità di diritti nelle istituzioni di governance globale, e non aspirerà mai all'egemonia né imporrà con la forza le proprie opinioni e preferenze. E se tutto ciò potrebbe non sembrare particolarmente importante, è la seconda parte del messaggio che mette la Cina in antitesi non solo rispetto alle grandi potenze che l’hanno preceduta, ma anche ai molti sostenitori dell'attuale ordine mondiale liberale.

Si sommi a questa baldanza la consapevolezza che la Cina è ormai entrata nelle fila delle grandi potenze mondiali. Si aggiunga il declino del mondo occidentale. Ne risulta la convinzione che le esperienze e i modelli di crescita della Cina non solo hanno funzionato bene per la Cina stessa, ma ora potrebbero addirittura fornire quella che viene spesso definita la "soluzione cinese" (Zhongguo fang' an) per alcuni problemi a livello mondiale. Tutto ciò si declina in una classe dirigente che è disposta a fornire beni pubblici e forme selettive di leadership mondiale e a spingere come non mai per una riforma più rigorosa della governance globale; non solo della distribuzione del potere all'interno delle istituzioni, ma anche di alcune delle norme e dei principi che le sostengono. La logica di questa posizione autoimposta significa che la Cina non può né ha intenzione di costringere altri a seguire i suoi stessi percorsi e ad accettare le sue proposte. Tuttavia, resta la consapevolezza che vi sia abbastanza bisogno di un’alternativa cinese alle prescrizioni e alle politiche occidentali che per una presunta leadership cinese possa ottenere un considerevole sostegno e seguito a livello internazionale (quantomeno in alcuni settori).

Finora, la leadership cinese sembra essere stata accolta con grande favore dalla maggior parte delle persone quando è stata accompagnata da (o ha assunto la forma di) investimenti. Il sostegno europeo alla creazione della Banca asiatica di investimento per le infrastrutture è un esempio eclatante, anche se è degno di nota il fatto che Giappone e Stati Uniti non si siano convinti ad aderire a questa iniziativa cinese che sembra adattarsi piuttosto bene al sistema preesistente. Tuttavia, le iniziative cinesi vanno ben oltre la semplice distribuzione di risorse materiali: la Cina sembra avere una particolare propensione non solo a fornire finanziamenti allo sviluppo (soprattutto, ma non solo, ai paesi lungo la Belt and Road) ma anche a cambiare la definizione di ciò che si intende per sviluppo. C’è inoltre un tentativo di ampliare il consenso internazionale sulla visione cinese di quale importanza dare ai diritti umani e alla loro definizione e promozione. Lo stesso vale per la volontà cinese di mettere in primo piano la sicurezza e la stabilità dello stato rispetto ai diritti e alle libertà individuali nella governance transnazionale di internet.

Per la Cina potrebbe non essere più così semplice continuare a giocare il ruolo di grande potenza. La ricerca proattiva da parte di Pechino di forme di leadership costruite intorno a preferenze e obiettivi politici (più o meno chiari e ideologici) è qualcosa di piuttosto diverso dal ”mantenere un basso profilo” o, più semplicemente, dal dichiarare a che cosa ci si oppone. Su alcune questioni la leadership cinese sembra non solo essere largamente accettata, ma addirittura desiderata. Un buon esempio sono le tematiche ambientali. Tuttavia, come dimostra la reazione provocata dai tentativi cinesi di irrobustire il sostegno alle proprie posizioni in seno al Consiglio per i diritti umani, una strategia cinese più visibile e netta su alcune questioni più politiche potrebbe avere conseguenze potenzialmente polarizzanti. Non è azzardato ipotizzare che, sebbene vi possa essere un notevole sostegno da parte di molteplici attori internazionali al fatto che la Cina assuma una posizione di leadership sul tema degli investimenti per lo sviluppo, questo sostegno sarebbe destinato a diminuire nel caso in cui Pechino tentasse di ridefinire la sua leadership in termini di norme, ideali e altri standard politici. E a complicare ancora di più le cose, come dimostra l’Australia, è il fatto che attrarre investimenti cinesi tentando allo stesso tempo di resistere all'influenza politica di Pechino può rivelarsi un cerchio piuttosto difficile da far quadrare.

Nel 2018, una delle priorità per la Cina sarà cercare di stabilire quale sia la ”soluzione cinese” più appropriata a tutta una serie di problemi mondiali. Non è però ancora chiaro cosa ciò comporterà in termini di proposte politiche concrete (al di là di aspirazioni e obiettivi più generali). Questa strategia ad ampio spettro sarà accolta con favore da alcuni attori e su alcuni settori specifici, ma non da tutti e non su tutto. Per essere leader è necessario avere chi ti segua; lo scoglio più grande per le ambizioni cinesi nel breve periodo potrebbe essere quello di tenere a freno rivendicazioni eccessive (e toni trionfalistici) quando si fa riferimento a un futuro sino-centrico, che rischiano di allontanare potenziali alleati. In ogni caso, concentrare maggiori sforzi nel costruirsi una ”followership” stabile è un obiettivo che anche altri leader dovrebbero perseguire con maggiore attenzione.
Traduzione dall'inglese di Chiara Reali

torna all'indice ↑

 

Sondaggi a confronto - Crisi, minacce, leader: cosa ne pensano l'opinione pubblica e gli esperti

Vedi i risultati completi dell'expert panel ISPI o del sondaggio ISPI-RaiNews-IPSOS

Un primo dato significativo nel confronto tra le valutazioni dell’expert panel e quelle dell’opinione pubblica è la percezione della molteplicità delle minacce che caratterizzano lo scenario internazionale secondo il primo, mentre per il secondo lo scenario è caratterizzato per una maggiore concentrazione attorno ad alcune questioni. Le disuguaglianze economiche, la corea del Nord, il terrorismo islamico, le crisi in Medio Oriente e i cambiamenti climatici sono sostanzialmente parificate ai primi posti nella percezione degli esperti. Per l’opinione pubblica il terrorismo costituisce la maggior preoccupazione, seguito dalla Corea del Nord.

Sulla crisi economica, intesa principalmente come bassa crescita e persistenza di un alto debito pubblico, sembrano convergere sia le valutazioni degli esperti che dell’opinione pubblica quale prima e più importante minaccia per il nostro paese. Piuttosto singolare notare come questa percezione sia così prevalente negli esperti interpellati proprio nell’anno in cui l’economia italiana appare in chiara ripresa. Per l’expert panel rivestono particolare rilevanza sia le fragilità dell’Europa che la crisi in Libia. Importante per entrambi, ma piuttosto differente nei numeri, la percezione verso l’immigrazione, con una opinione pubblica certamente più preoccupata di quanto lo siano gli esperti.

Non vi è dubbio che la percezione più divergente sia relativa all’influenza dei leader internazionali e delle rispettive potenze. L’expert panel indica chiaramente nel leader cinese Xi Jinping il protagonista dell’anno. L’opinione pubblica si orienta invece verso Donald Trump forse conoscendo ancora poco il leader cinese che d’altronde preferisce spesso mantenere un basso profilo. Se si analizza la proiezione di potenza di Cina e Russia entrambe le potenze mondiali sono percepite come in ascesa sia dagli esperti sia dall’opinione pubblica italiana. Risulta piuttosto chiaro il giudizio dell’expert panel sugli Stati Uniti: il 70% degli esperti reputa che l’influenza statunitense nel corso del 2017 sia stata inferiore a quella del 2016, mentre il presidente Donald Trump risulta a livello personale solamente il quarto leader più influente al mondo classificandosi dopo Xi Jinping e Putin, ma anche dopo Papa Francesco. Gli esperti descrivono sostanzialmente un paese in declino. Molto più bilanciata e positiva la valutazione dell’opinione pubblica su Trump, ancora, nel bene o nel male, giudicato più rilevante di tutti.

torna all'indice ↑


URL Sorgente (modified on 24/06/2021 - 20:31): https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-mondo-che-verra-10-domande-il-2018-19349